Controcultura

Franco Farina, il "maestro" dell'arte contemporanea

Insegnava alle elementari Poi ebbe l'intuizione di far rivivere i palazzi di Ferrara E lo fece dal 1963 al 1993

Franco Farina, il "maestro" dell'arte contemporanea

È difficile capire come e perché accadde ma, a un certo punto degli anni '60, Ferrara, città del silenzio, addormentata fra le nebbie, divenne la prima capitale italiana dell'arte contemporanea. Proprio in quegli anni io percorrevo la via più bella d'Europa, corso Ercole I d'Este, per andare dall'Istituto Canonici Mattei, dove studiai dalla quinta elementare alla terza media, verso Palazzo dei Diamanti, e piegare poi su via Porta Mare dove ci aspettava il pullman per tornare a casa.

Doveva essere proprio in quel tempo che un giovane uomo, poco più che trentenne, Franco Farina, maestro elementare, aveva avuto l'intuizione di far vivere nei palazzi ferraresi, a partire da Palazzo dei Diamanti, la grande arte contemporanea e internazionale, lontanissima da una piccola città di provincia che era stata, in un glorioso passato, una grande civiltà. È lui ad affermare: «il merito dell'Amministrazione comunale fu quello di lasciarmi fare. Allora l'Amministrazione lavorava con il rasoio alla gola, c'era la Prefettura che vagliava tutti gli atti del Comune. I rapporti con i sindaci sono stati ottimi». Era un altro mondo, e per l'arte contemporanea un deserto. Ferrara, con Farina, fu un'oasi. Agli esordi, con Renzo Bonfiglioli, presidente della Comunità Israelitica, Farina realizzò una documentata mostra sui lager nazisti. Poi, con l'assessore Mario Roffi, fu la volta di riscoprire Biagio Rossetti attraverso gli studi di Bruno Zevi.

L'attività di Farina nell'arte contemporanea, senza allontanarsi dai maestri ferraresi, che furono grandi anche nel Novecento, inizia con un colto e dimenticato storico ferrarese, Gualtiero Medri, che insegnava storia dell'arte e che allora era direttore onorario dei musei ferraresi. Così, nel 1963 Farina organizzò, a Casa Romei, una mostra di Giovanni Boldini. Fu la prima di mille. Ma Farina sentiva sempre più forte il richiamo dell'arte contemporanea, ed era su corso Ercole d'Este che voleva muoversi. Lo stesso palazzo dei Diamanti era molto diverso da come lo vediamo oggi. Così ci racconta Farina: «In Ercole d'Este al numero 17 c'era l'Ufficio leva e dove c'è il Museo della Resistenza c'era la legnaia. Dopo c'è stato il recupero del Comune, e mi hanno incaricato di girare la provincia per trovare oggetti per allestire il Museo del Risorgimento e della Resistenza, e così al numero 19 è nato il museo. Quando l'ufficio leva venne trasferito in via Palestro, al numero 17 nacque il Centro Attività Visive, e la prima mostra del 1964 fu España Libre».

Medri lasciò pian piano mano libera a Farina, e in quel periodo cominciò a entrare nell'orbita delle Gallerie anche Palazzo Massari. Era il cammino per la creazione di un vero polo dell'arte contemporanea, e Farina sentiva che era quella la sua missione. Ed era su via Ercole d'Este che aveva sognato la sua impresa.

Comincia così una storia nuova, che coincide con gli anni della nostra giovinezza, e la mia generazione deve infinita gratitudine a Franco Farina, amico e venerato «maestro». Di anno in anno, Ferrara accolse tutti i maestri del Novecento e tutti i più importanti artisti contemporanei, da Giorgio De Chirico a Filippo De Pisis a Robert Rauschenberg ad Andy Warhol. Tutto, in quegli anni, accadeva a Ferrara; ed erano ancora lontani i centri istituzionali dell'arte contemporanea, fondazioni prima che musei, come il Castello di Rivoli (1984) e il Museo Pecci di Prato (1988). E poi il Mart, il Madre, il Maxxi. Ferrara fu prima di tutti. Arrivò molto più tardi anche Bologna, con la mercantile Arte Fiera (1974); ma nessuno meglio di un cittadino o studente ferrarese poteva dire di avere un'esperienza diretta di tutti i momenti essenziali dell'arte del Novecento e di quella contemporanea, a Palazzo dei Diamanti o negli spazi via via abilitati dalla fantasia di Farina, come i due piani del padiglione di arte contemporanea. A Ferrara, in quegli anni, arrivavano personalità leggendarie come Man Ray, André Masson, Emilio Vedova, Roberto Sebastian Matta, Lucio Fontana, Enrico Baj, e anche i miti americani come Rauschenberg, Jim Dine, Andy Warhol. Il 1968 è l'anno di Guttuso e di Vedova, con tutta la grande retorica militante della guerra in Vietnam, e della rivoluzione cubana tra Fidel e il Che. Il 1970 è l'anno, fuori del tempo, di Giorgio De Chirico. Dopo il colpo di stato di Pinochet, nel 1973, Roberto Sebastian Matta, negli ambienti di Palazzo dei Diamanti, propone manifestazioni di solidarietà per il popolo cileno. Nell'archivio Farina una lettera di Matta è quasi un monito, e indica il livello di coinvolgimento attivo, e più di un critico militante, dell'intraprendente maestro: «La mostra di Ferrara, deve rimanere e non disperdersi (da non vendere) perché possa viaggiare e mostrare (utopicamente) che se il cileno potesse sviluppare la sua cultura sarebbe un primitivo dell'artista, un intellettuale organico».

Il Centro Video Arte, fondato nel 1973 da Lola Bonora, con la collaborazione di Carlo Ansaloni, per favorire le ricerche sui nuovi linguaggi artistici, documenta, da allora, le mostre ferraresi attraverso videotape degli allestimenti (esemplare quello di Rauschenberg) e interviste (a Vedova, a Matta, a Warhol). Anche questa fu una intelligente strategia didattica di Farina, per avvicinare Ferrara ai grandi episodi artistici tra Europa e America. Indimenticabili gli stivali rossi di Jim Dine, ma anche le grandi mostre, in sequenza, di Capogrossi, Sironi, Campigli, Sergio Zanni, Osvaldo Licini, Fausto Pirandello, Music, Giovanni Gromo, e anche di pittoreschi avanguardisti come Guglielmo Achille Cavellini (che io conobbi, eccentricissimo, in occasione della sua mostra a Ferrara), poeti visivi come Emilio Isgrò, Lamberto Pignatti, Michele Perfetti, Corrado Costa; e artisti come Getulio Alviani, Tancredi, Bice Lazzari, Mimmo Rotella, Emilio Tadini, Tono Zancanaro, Mario Schifano, Federica Marangoni, e i ferraresi Franco Goberti e Maurizio Bonora. A Ferrara tutto era possibile.

Oggi quei percorsi e quegli incontri si rivivono attraverso una selezione delle opere, in gran parte donate dagli artisti a Farina, reliquie di mostre di cui rimangono utile documento i bianchi cataloghi: un museo involontario. Farina era un uomo curioso, non un collezionista, ed era consapevole di un compito nuovo e indispensabile, documentato dal fecondo materiale di archivio che testimonia il rapporto con artisti, critici e galleristi: da Argan a Calvesi, da Janus a Crispolti, da Cardazzo a Schwarz, da Leo Castelli a Ileana Sonnabend. A Ferrara io, con l'entusiasmo di un giovane, incontrai, prima di rivederlo a Napoli con un altro singolare motore dell'arte contemporanea, Lucio Amelio, Andy Warhol, con la sua chioma bianchissima, e l'intuizione, anticipatrice dei social, di girare con un registratore al collo per avere memoria di ogni incontro, di ogni dialogo, come in un prolungamento dell'Ulisse di Joyce, per un archivio sonoro. Fu nel 1975, per la mostra, storica e mondanissima, «Ladies and Gentlemen». Farina, compiaciuto e sornione, sorrideva.

Fummo amici, ignari entrambi di quello che ci avrebbe unito, a distanza di più di cinquanta anni. Mi affidò l'introduzione alla mostra di Capogrossi (pittore intelligentissimo, oggi così lontano dalla mia sensibilità), e poi la curatela della mostra, nello spazio solenne di Palazzo dei Diamanti, di Gustavo Foppiani, dimenticatissimo pittore di Piacenza, amico del ferrarese Sergio Zanni, nel 1988. Foppiani era morto da poco più di un anno, e fu un gesto di estrema gentilezza, da parte di Franco, chiedermi di curarne la retrospettiva, con un bel catalogo. Aveva capito quanto mi stava a cuore il poeticissimo Foppiani, anche se non rientrava nella sua lettura dei maestri essenziali del Novecento, alla conoscenza dei quali aveva inteso educare i suoi concittadini, dando loro il privilegio di una consuetudine diretta e metodica delle opere, in mostre necessarie.

L'impresa di Franco Farina è stata una grande opera di educazione e di formazione, senza i vezzi del critico militante o del curatore indipendente, ma con lo spirito vero del maestro.

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