Politica

Franco Maria Ricci «Amo la Messa in latino bella come una canzone»

L’editore parmense smentisce lo stereotipo dell’«esteta immoralista» e racconta la sua devozione

Franco Maria Ricci «Amo la Messa in latino bella come una canzone»

Quando si pensa a un esteta, a un dandy, si pensa a un immoralista egocentrico in tutt’altre faccende affaccendato rispetto alla religione. Viene in mente Oscar Wilde, che per una battuta riuscita sembrava disposto a giocarsi qualsiasi cosa, anche l’anima, oppure Charles Baudelaire, che nei Fiori del male si atteggiò a satanista. Al di là della messinscena artistica la realtà era piuttosto diversa: Wilde morì da cattolico convertito e Baudelaire precisò più volte, nella corrispondenza oggi pubblicata da Fazi (Il vulcano malato. Lettere 1832-1866), di essere un perfetto papista, nemico dei protestanti e ammiratore dei gesuiti. Ma sono dettagli che sfuggono alla grande maggioranza dei lettori, che si fermano alle apparenze delle opere stranote senza approfondire la biografia e i testi più intimi. Allo stesso modo Franco Maria Ricci, l’editore più raffinato d’Italia, appare lontanissimo dalla devozione che invece lo ha sempre animato fin da quando, ragazzo, andava a piedi da Parma al santuario di Fontanellato (19 chilometri) per chiedere alla Madonna la grazia di passare un esame. Adesso che a Fontanellato ci abita, nella tenuta degli avi, il marchese Ricci per andare a Messa al santuario ogni domenica prende la Smart. Però se ne rammarica, e si ripromette di organizzare prossimamente un minipellegrinaggio tradizionale e quindi pedonale. Qui nella zanzarosa Bassa parmense conserva una parte delle sue splendide collezioni, soprattutto sculture del primo Ottocento, e anche l’interesse per l’algida arte neoclassica, la prima corrente artistica sviluppatasi a prescindere dalla motivazione religiosa, confligge col Ricci cattolico romano. Ma nel suo curriculum c’è qualcosa di peggio, un orribile peccato editoriale consistente in ben 18 satanici volumi.
Che cosa risponderesti all’inquisitore che ti rinfacciasse la ristampa della Encyclopédie di Diderot e D'Alembert, giustamente messa all’indice da papa Clemente XIII?
«Mi giustificherei spiegando che qui a Parma c’era un duca bigotto e un bibliotecario prete eppure la biblioteca ducale di Encyclopédie ne aveva due copie. Una è oggi in mio possesso».
Quel bibliotecario sarà andato all’inferno, se non si è pentito.
«Io non mi sono pentito, l’Encyclopédie è la grande opera dell’intelligenza moderna. Magari venisse ancora letta: tu credi che Prodi legga Diderot o che Pecoraro Scanio studi Voltaire?»
Per quanti sforzi faccia non riesco a immaginarmeli. Comunque continuo a preferire l’Enciclopedia della Sicilia, la tua più recente pubblicazione, con l’Annunciata di Antonello da Messina nelle primissime pagine.
«Anch’io sono devoto alla Madonna e ancora oggi in caso di bisogno mi rivolgo a lei. Credo che chiedere sia un atto di umiltà, la Madonna è contenta se tu chiedi».
Hai mai fatto voti o fioretti?
«L’anno scorso ho smesso di fumare durante la quaresima per salvare un mio amico che stava male. Infatti non è morto».
La tua religiosità ha una radice familiare?
«Certamente i miei genitori erano cattolici ma hanno contribuito tante esperienze. Da ragazzino, durante la guerra, ero sfollato a Monchio, sull’Appennino Parmense. Avrò avuto cinque anni quando ho visto un partigiano estrarre le pistole come nei film western e uccidere un altro partigiano».
Contrasti ideologici?
«No, erano tutti e due comunisti, solo che tutti e due volevano comandare».
Quello che si dice la lotta politica.
«L’ideologia forse c’entrava nella tragedia di mio cugino Ottavio Ricci, medaglia d’argento, partigiano cattolico ucciso dai tedeschi. Si è sempre detto che fossero stati i partigiani comunisti a fare la spiata per toglierselo di mezzo».
Hai studiato dai preti?
«Ho iniziato le elementari dai Fratelli delle scuole cristiane che però hanno chiesto a mio padre di spostarmi nella scuola pubblica. Colpa della cattiva condotta: con cinque o sei compagni avevo fondato una banda che disturbava, eravamo come gli ultras della curva sud. Quindi il vero impulso religioso l’ho ricevuto anni dopo, dai gesuiti».
Era un collegio? Un liceo?
«No, era una specie di doposcuola filosofico che si teneva a Parma nella chiesa di San Rocco. L’ho frequentato fino a dopo la laurea. Io allora avevo la mania di Benedetto Croce e con padre Molin ci lanciavamo in discussioni filosofiche impegnative. Ma soprattutto i gesuiti mi hanno insegnato come si sta al mondo. Poi ognuno fa quello che vuole ma conoscere il bene e il male e saperli distinguere è alla base di tutto».
Allora la mania di Croce, adesso la mania del labirinto. A che punto sono i lavori di questa nuova visionaria iniziativa di Franco Maria Ricci?
«Sta procedendo bene, abbiamo messo tutte le piante e fra tre o quattro anni potrò aprirlo al pubblico. Sarà il più grande labirinto del mondo, con tre chilometri e mezzo di percorso dentro un quadrato di 250 metri di lato».
Prima di venire qui ho studiato la faccenda e ho scoperto che il labirinto non fa parte soltanto della cultura greca ma anche di quella cristiana.
«Sì, sul pavimento della cattedrale di Chartres ce n’è disegnato uno bellissimo. Era usato in sostituzione del pellegrinaggio a Gerusalemme che a quel tempo era lunghissimo e pericoloso: facendolo in ginocchio si raggiungevano i Luoghi Santi in modo simbolico».
Il labirinto ha avuto anche altre motivazioni, ad esempio quelle erotiche.
«Il labirinto settecentesco è libertino, i gentiluomini rincorrevano le fanciulle per dargli un pizzicotto nel sedere. Il mio labirinto invece vuole obbligare a stare soli con sé stessi. Essendo molto grande e con le pareti molto alte sarà facile perdersi: se ti perdi ti senti un coglione e sentirsi un coglione, ogni tanto, è una grande medicina spirituale. Poi nell’area interna ci sarà anche una cappella per pregare e celebrare matrimoni».
Potresti farti prete e celebrarli tu stesso. Mai avuta questa tentazione?
«Mi è successo quando, appena laureato in geologia, lavoravo per la Gulf nel Kurdistan turco. Avevo scelto quel lavoro non perché mi interessasse cercare il petrolio ma perché mi permetteva di studiare i monumenti ittiti e selgiuchidi e invece vidi la fame, la sete, i bambini col tracoma e gli occhi pieni di mosche. A quel punto ho capito che o facevo il missionario o me ne tornavo a Parma. Sono tornato a Parma».
Cosa pensi della volontà di Papa Benedetto XVI di rilanciare, almeno in alcune occasioni, la Messa in latino?
«Ne penso benissimo, io ancora oggi prego in latino. È una lingua più musicale dell’italiano.
La Messa in latino è bella come una canzone americana, c’è il grande vantaggio di non capire tutte le parole. La tragedia delle canzoni italiane è che si capiscono troppo. Il latino è utile anche in un’altra occasione».
Quale?
«Quando ci si confessa all’estero. Una volta mi trovavo in Germania e non conoscendo il tedesco mi sono confessato in latino».
L’argomento della confessione?
«Violazione del sesto comandamento, una storia con una ragazza.



La confessione è venuta più dolce, le parolacce latine non le conosco e quindi mi sono potuto risparmiare i particolari».

Commenti