Cronache

«La mia Quezzi, devastata dal cemento»

«La mia Quezzi, devastata dal cemento»

«Piccon dagghe cianin mi son nasciûo chi sotta ’sto camin»... così cantavano i «Trilli» e Piero Parodi parlando di una Genova che non c'è più. Vedendo i ricordi dell'infanzia e della gioventù abbattuti dai duri colpi di un piccone. Muri che avevano storie da raccontare, finestre che si sono affacciate su anni di storia trascorsi su strade che da bianche sono diventate asfaltate, attraversate prima dai cavalli, poi dai tram e infine da macchine e autobus. Pietre che non ci sono più se non nei ricordi degli anziani. Ed è così che Vittorio Varni, storico tipografo del Secolo XIX racconta la sua Quezzi. La Quezzi di un tempo, dei fasti e degli splendori di una zona che solo con l'era moderna è diventata «popolare» con enormi casermoni in cemento. Ma che una tempo oramai troppo lontano era solo una manciata di casette sulle pendici dell'Egoli che scendevano passo passo lungo il torrente Fereggiano. «Un torrente che non ha mai fatto dei danni - dice - chissà che cosa hanno fatto per ridurlo così, quanta roba avran cacciato lì dentro per restringergli l'alveo». «La frana delle Brignoline - aggiunge - io l'ho vista già negli anni '35-'37. Quindi pensate un po'...». E i ricordi di Varni corrono impetuosi e chiari come le acque di un tempo del rio Quezzino. «La casetta del dazio - ricorda - è del 1800. Mia mamma mi raccontava che sua sorella, nata alla fine dell'Ottocento, l'avevano fermata proprio i doganieri lì perché aveva una bottiglia da un litro di latte e doveva pagare appunto il dazio. E sapete lei che cosa ha fatto? - continua ridendo - se ne è bevuta un sorso e ha detto ai doganieri “Adesso non è più un litro” ed è passata senza tirare fuori un centesimo». Poi la casetta è diventata il negozio di un calzolaio. Sotto di lei, si ricorda, c'era un vano con un muro che lo divideva dal fossato del Fereggiano in cui viveva una famiglia che era caduta in disgrazia a causa della droga. Un anfratto che dovrebbe ancora essere esistente.
Vittorio Varni, classe 1929, è una memoria storica di Quezzi. Nasce proprio in piazza Largo Merlo nel palazzo della farmacia. E si ricorda perfettamente di quando all'inizio di via Pinetti, che all'epoca ancora si chiamava via Daneo, c'era la palazzina di Bacicin l'Americano e subito dopo la Farmacia Popolare che poi, come altri edifici, è finita sotto i duri colpi del piccone. Lì vicino c'erano delle casette basse e a fianco un mulino, proprio del nonno del signor Varni. Mentre più avanti, già dove adesso inizia via Fereggiano, c'era la vecchia casa del Fascio, una villetta che poi era diventata una balera. Le ruspe l'hanno travolta per creare i palazzoni di via della Mimosa. E quel ragazzo di Quezzi ha visto sparire anno dopo anno il verde dei suoi prati, dei boschi e delle coltivazioni. E anche l'azzurro del cielo, sempre più frastagliato tra le alte cime dei palazzoni popolari. L'asfalto impadronirsi delle sponde acciottolate del torrente. E tutto diventare più sfumato, ma vivido nei suoi ricordi. Con le lacrime agli occhi racconta della Chiesa di Santa Maria di Quezzi, bomboniera del '700, dove suo zio era campanaro. «L'hanno lasciata andare in malora - denuncia - hanno venduto tutti i terreni di sua proprietà e i soldi non li hanno reinvestiti per ristrutturarla. Come si entra - spiega - a sinistra c'è una cappellina dove c'è una fonte battesimale. È tutta buia. C'era una fila di lampadari bellissimi che illuminavano tutta la navata. Spariti. Ne sono rimasti due. Gli altri si dice che siano nell'oratorio di Santa Maria Maddalena». Nella chiesa c'era anche il teatrino. Di cui però non si hanno più notizie. «Un mio amico possiede ancora le foto dell'epoca della posa della prima pietra - dice - e a Quezzi c'era la banda». Varni è il nipote «du Peive» che a Quezzi era davvero una personalità, perché uomo retto e giusto. Suo nonno dava da bere ai muli degli artiglieri che si arrampicavano fin lassù. Vittorio Varni, baritono di alto livello che cantava nella Cantoria, aveva fatto il collegio dai «Derelitti» (come dice lui, ora conosciuto come il Fassicomo), ha cantato per il ringraziamento di quando gli artiglieri hanno tolto l'esplosivo dalla bomba che ora si trova dentro la cattedrale di San Lorenzo.

Una colonna portante della storia della Superba, ma soprattutto della sua amata Quezzi.

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