Cronache

Un testimone dell'amore nel «Villaggio del ragazzo»

Correre per Dio in mezzo ai giovani. Don Emilio Arata, classe 1938, Parroco di San Maurizio dei Monti e San Quirico di Assereto in Rapallo, Assistente al Villaggio del Ragazzo di San Salvatore di Cogorno, lo fa da cinquant'anni, dal mese successivo all'ordinazione sacerdotale avvenuta il 1° giugno 1963, per le mani dell'allora Vescovo di Chiavari Monsignor Francesco Marchesani.
«Come sono arrivato al Villaggio? A piedi - risponde prontamente con un gran sorriso -. Fu proprio il Vescovo ad accompagnarmi al Villaggio, che allora si trovava a Chiavari, al Conservatorio delle Suore Gianelline, nell'allora Piazza Ravenna, - racconta - Ricordo come se fosse ieri il percorso che facemmo insieme a piedi dall'Episcopio al Villaggio, era il 4 luglio 1963. E ricordo benissimo le parole con le quali Monsignor Marchesani mi conferì l'incarico».
Cosa le disse?
«Che mi faceva un dono singolare, tutto per me: continuare in mezzo ad una folla di fanciulli l'attività che avevo svolto in Seminario. Io non ero mai stato al Villaggio del Ragazzo e il mio incarico doveva essere provvisorio: un anno, al massimo tre».
Invece Don Emilio Arata resterà per decenni al Villaggio e sotto la sua guida, sinora, sono cresciute quasi tre generazioni di giovani.
Ha conosciuto Prete Rinaldo Rocca, l'attuale Presidente del Villaggio del Ragazzo e successore di Don Nando, quando questi era adolescente: «Facevo l'assistente ai ragazzi che frequentavano la Scuola Media in Seminario - ricorda - Rinaldo era uno di loro».
Come ricorda il suo primo impatto con il Villaggio del Ragazzo?
«Appena vidi Don Nando, impegnato con i suoi ragazzi a traslocare letti ed armadi in vista delle colonie estive, capii subito che il mio ministero al Villaggio sarebbe stato correre. Con Don Nando, per i ragazzi e per il Signore, come le Donne la sera di Pasqua...».
Il suo ministero sacerdotale si è svolto quasi totalmente accanto a Don Nando Negri (1920-2006), il Padre del Villaggio del Ragazzo, per il quale è avviata la Causa di Beatificazione e Canonizzazione. Che ricordi ha ancora di lui?
«Don Nando aveva per me molte gentilezze e molte cure, un'attenzione paterna. Ci teneva molto, ad esempio, che io avessi del tempo per incontrare mia mamma: non faceva mai mancare un dolce o un piccolo dono. Dimostrava in tutti i modi che ti voleva bene e te lo faceva sentire».
Cosa le disse quando iniziò il suo servizio al Villaggio del Ragazzo?
«Quando tu sei in mezzo ai ragazzi - mi disse - non avere paura di nulla e di nessuno; stai tranquillo che loro ti osservano, ti giudicano, ti guidano e, nel caso, ti difendono. Aveva sempre moltissime premure per loro, ci teneva che fossero contenti e in buona salute. Specialmente nel periodo delle colonie estive mi metteva nel portafoglio una sommetta per i ragazzi più poveri».
Com'era lavorare con Don Nando? Delegava le responsabilità o era un accentratore?
«Mai è intervenuto sulla mia vita spirituale. Se io sono stato un buon prete o meno è responsabilità solo mia. È una libertà che sentivo necessaria ma che non ho dovuto chiedere. Per quanto riguarda i rapporti educativi ed assistenziali, Don Nando ci teneva ad ottenere il massimo, per il bene dei ragazzi; voleva che tutto fosse fatto con estrema cura».
Come lo definirebbe?
«Un Testimone dell'Amore, con quella radicalità che affascina sia i credenti che i lontani. Ti accorgevi subito che voleva il tuo bene. Questo non vuol dire che sia sempre stato tutto liscio senza problemi. Racconto un episodio che lo spiega più di tante parole».
Prego.
«Una mattina, negli anni '80, prima di partire con due pullman di ragazzi per le colonie estive a Massa Marittima, io e lui avemmo uno scambio di vedute molto netto, nel quale espressi con forza il mio dissenso sul suo modo di concepire alcuni momenti formativi dei ragazzi durante il soggiorno. Ci salutammo molto freddamente. Arrivati a destinazione, dopo varie ore di viaggio, nel tardo pomeriggio, mi recai in cappella. Mentre ero assorto in preghiera, sentii una mano sulla spalla: era Don Nando che mi diceva: “Come stai, Don Emilio? Volevo vederti”. Aveva percorso duecentoquarantatrè chilometri per vedermi, e altrettanti ne ripercorse per il rientro, perché temeva di avermi ferito. Questo era lo stile di Don Nando».
Don Emilio, ci può raccontare com'è nata la sua vocazione?
«Non lo so nemmeno io - sorride - da bambino facevo il chierichetto, incontrai alcuni seminaristi e mi piacque la loro letizia. Pensai che sarebbe stato bello per me essere un giorno come loro».
Dopo cinquant'anni di sacerdozio cosa dice?
«Non si diventa preti per volere fare del bene, quello si può fare in tanti modi. Il Signore ti chiama, tu non sai il perché... e tu ci vai dietro.

Semplicemente».

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