Controcultura

Gillo Dorfles: «La nostra epoca non ha più un gusto: viviamo nell'era dei moltissimi gusti»

Il maestro dell'Estetica italiana del Novecento a 106 anni pubblica una raccolta di scritti critici dal 1933 a oggi. «Il kitsch? Per fortuna non tramonta mai. La vera opera d'arte esiste solo in contrapposizione a esso»

Gillo Dorfles: «La nostra epoca non ha più un gusto: viviamo nell'era dei moltissimi gusti»

La prima domanda, prologo anomalo di un'intervista in tutto fuori dall'ordinario, la rivolge sulla soglia di casa l'intervistato all'intervistatore: «Ha visto il mio libro? Impressionante, vero?». E in verità più che la mole del libro che offre l'occasione dell'incontro (il volume Estetica senza dialettica che raccoglie, per un totale di 2.600 pagine, tutti gli scritti critici di Gillo Dorfles apparsi tra il 1933 e il 2014, ora raccolti da Bompiani in una delle collane più intellettualmente nobili dell'editoria italiana, «Il pensiero occidentale» fondata da Giovanni Reale) è «impressionante» l'eccezionalità dell'intervistato: Gillo Dorfles, 106 anni compiuti di cui 80 di attività critica e artistica, che ci accoglie nell'appartamento milanese elegantemente vissuto con addosso un impeccabile abito marron e sulle spalle un secolo di incontri, ricordi, viaggi, giudizi e un gusto per il Bello e per la conversazione invidiabili. In lucidissima forma fisica, al netto di un udito quasi azzerato. Risponde alle domande con una chiarezza inversamente proporzionale alla difficoltà dell'ascolto, si fa portare il caffè dalla governante che lo aiuta alcune ore in casa, dove vive da solo, lo beve con zucchero e un po' di latte, tiene il cordless a portata di mano sul tavolo e accanto il giovanissimo nipote Piero Dorfles (che a dicembre compirà 70 anni...), mentre dietro, davanti e accanto a sé ben più che un pugno ma migliaia di libri sparsi ovunque...

Un libro «impressionante», davvero: oltre duemila pagine, edizione sontuosa, tomo imponente - grido, ndr.

«Troppo grosso».

È la prima volta che sento un autore lamentarsi perché gli hanno pubblicato un libro troppo grosso...

«Mi spaventano un po' questi volumi fatti per essere acquistati più che per essere letti. Il curatore, Luca Cesari, ha fatto un ottimo lavoro, e la sua introduzione prepara bene chi vuole leggere il libro. Peccato che pochi lo faranno».

Ma chi lo farà, cosa ci troverà dentro?

«La mia produzione scientifica sull'estetica, cioè sulla filosofia dell'arte, e quindi sulla Bellezza, sul gusto, sul rapporto tra l'uomo e l'arte, in tutte le sue forme. E qualcosa anche sulla mia personalità».

Qual è la personalità di Gillo Dorfles?

«Quella di uno che ha sempre incrociato la ricerca scientifica con la situazione non solo artistica e letteraria ma soprattutto sociale del proprio tempo. Applicando la riflessione filosofica alla vita quotidiana delle persone comuni».

Lei ha sempre preferito definirsi «fenomenologo del gusto».

«Sì, perché ho cercato di tenere conto del gusto di una società o di un'epoca, cioè della gente. Anche la mia curiosità per il kitsch non è altro che un modo per attirare l'attenzione sul fatto che tutte le diverse sfumature del gusto, e persino il cattivo gusto, essendo un fatto sociale, possono diventare un elemento di studio».

Qual è il gusto della nostra epoca?

«La nostra epoca non è l'epoca di un gusto, ma quella dei moltissimi gusti. Non è mai stato così, se ci pensa. Il barocco ad esempio, una volta accettato, è diventato il gusto del Settecento. E ogni età ha avuto il suo gusto. In Italia, ancora fino agli anni Venti del Novecento, quando Margherita Sarfatti elabora la cosiddetta arte fascista, è così. Poi però cambia tutto. Dopo non è più stato affermato con precisione da uno studioso un certo gusto del Novecento. Con la modernità abbiamo un gusto che si rifà semplicemente alle ultime opere che appaiono nel panorama artistico. E così oggi sono le opere che affermano il gusto, non è più il gusto che presiede alle opere».

Di opere e di artisti ha riempito la sua vita. Solo qui, alle pareti del salotto, vedo un quadro di Lucio Fontana, uno di Enrico Baj, uno di Agostino Bonalumi...

«... Non voglio dire che sia una mia invenzione, però quasi... Fu il mio dentista di allora, credo fossero gli anni Cinquanta, a dirmi che conosceva un tipo strano che faceva cose in rilievo... Agostino Bonalumi. Andai a trovarlo. E capii che era un vero artista, uno che aveva inventato un suo modo. Ecco, ogni artista, per essere un vero artista, deve inventare un suo modo...».

E Bruno Munari?

«Un altro vero artista, oltre che un personaggio a se stante. Non era solo un pittore ma un raffinato industrial designer, uno che univa l'invenzione artistica a quella tecnica. Un esempio unico al mondo fino a quel momento. Arrivo ad azzardare un parallelo - pur sapendo che sono artisti diversissimi - con Le Corbusier: grandi inventori su carta e grandi creatori nell'industria».

Giuseppe Capogrossi?

«Un notevole esempio di artista che ha inventato un proprio modulo, in apparenza esclusivamente grafico ma che in realtà è grande pittura».

Giosetta Fioroni?

«Per me tra le grandi pittrici italiane».

Tutti amici di ieri. E oggi, quali sono le cose più interessanti che ha visto recentemente?

«Vedo tantissime cose, me ne ricordo pochissime. Mi è piaciuta la Biennale del 2013 di Massimiliano Gioni che ha recuperato elementi artistici del passato a lungo trascurati, un mondo magico e mistico sempre lasciato da parte, come la pittura antroposofica che si rifà a Rudolf Steiner... Vedendo certe opere sono rimasto stupefatto».

Ci sono ancora spazi per la pittura?

«Se ci sono, non certo per la pittura figurativa. Ci sono, e ci sono state nei decenni passati, una pittura decorativa interessante, un disegno industriale interessante, e persino una cartellonistica pubblicitaria interessante... Ma la pittura rappresentativa non ci appartiene più».

E l'architettura?

«L'architettura è e rimarrà la forma d'arte più importante, perché lega la vita e le passioni dell'uomo con le strutture abitative in cui si esprimono le forme sociali. E infatti la nostra architettura migliore - penso alla Milano di Gio Ponti, di Franco Albini o di Vittoriano Viganò - è quella che unisce un elemento artistico di prim'ordine con il massimo di funzionalità. Guardi il Pirellone, guardi la Torre Velasca... Belli e funzionali. Ma non si può dire lo stesso di tutti i grattacieli della Milano di oggi...».

Il Bosco Verticale di Boeri è stato considerato il più bello del mondo.

«Fornire alla facciata un continuum vegetale di per sé è un arricchimento per l'edificio e un nuovo modo di legare l'architettura all'ambiente. Ma nel caso specifico del grattacielo milanese ho qualche dubbio: l'elemento vegetale, così esibito, rischia di essere trascurato e snaturare l'opera. Non si può chiedere all'inquilino anche di essere giardiniere. E poi a che costi? Più che una trovata, il Bosco Verticale mi sembra una trovatina».

Gillo Dorfles, c'è ancora spazio, in un'epoca tanto kitsch, per il kitsch?

«Ma certo. Per fortuna il kitsch non tramonta mai. Avremo sempre esempi inattesi di gusto deteriore. Non può esserci un'epoca in cui il gusto sia sempre e completamente positivo. La vera opera d'arte esiste solo in contrapposizione al kitsch».

Gillo Dorfles è stanco. I 106 anni si sentono, eccome. Vorrei chiedergli se l'Italia ha ancora un'influenza nell'arte contemporanea (ma so che direbbe di no), sarei curioso del suo giudizio sulle arti-star e le aste milionarie di Damien Hirst e Jeff Koons (ma mi ricordo che tempo fa ha detto che è tutta arte di second'ordine), so che su come passa le sue giornate preferisce non soffermarsi («Mi sveglio, lavoro, vado a dormire...»), e vorrei sapere qualcosa da lui sul destino dell'arte. Ma non c'è più tempo.

Del resto, basta un suo celebre aforisma: «L'arte non finisce mai, è che le opere stupide adesso sono troppe».

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