Politica

Il governo: i soldi ci sono ma non per le famiglie

Proviamo a immaginare la storia parallela di due giovani amici Giovanni e Antonio i quali - terminati gli studi - prendono percorsi di vita differenti. Giovanni decide di sposarsi; Antonio di vivere da single. I due amici sono abbastanza fortunati e riescono anche a trovare un lavoro che gli procura un buon reddito - 40.000 euro lordi all'anno - con discrete prospettive di crescita. Cosa accade loro dal punto di vista fiscale? Giovanni con moglie a carico che non lavora, perché sta cercando di completare gli studi, paga imposte per 10.830 euro. Antonio, il single, contribuisce invece per 11.520 euro. Morale: la giovane coppia paga solo 690 euro di imposte dirette in meno, pari all'1,7% del proprio reddito, anche se quel reddito serve a sostenere l'esistenza di due persone.
La situazione diviene ancora più iniqua dopo dieci anni. I nostri amici si sono impegnati nel lavoro e hanno raddoppiato il loro reddito annuo lordo, che ammonta ora a 80.000 euro. A Giovanni nel frattempo sono nati due bei bambini e la moglie, Teresa, ha deciso di consacrare alla loro educazione il suo tempo. Antonio, invece, si conferma «scapolone d'oro» e di metter su famiglia non vuole nemmeno sentirne parlare. Cosa fa il fisco? Lo premia. Gli impone tasse per 27.570 euro mentre a Giovanni, con famiglia a carico, richiederà 27.134 euro all'anno. La differenza è pari a 436 euro, l'1,6% del reddito. E in questo caso le bocche da sfamare sono diventate 4! L'iniquità è ancora più palese se Giovanni e Teresa confrontano la loro situazione fiscale con quella dei loro vicini di casa. Anch'essi hanno due figli ma lavorano entrambi. A parità di reddito, pagano imposte per 22.122 euro annui: 5.012 euro e circa il 23% in meno delle imposte pagate da Giovanni e Teresa.
Dove risiede la causa di queste assurde ingiustizie? Nel fatto che il nostro sistema fiscale è costruito su un presupposto falso: che la cellula fondamentale di produzione economica, su cui va verificata la capacità contributiva, e quindi la pretesa fiscale, sia sempre e comunque l'individuo. Nella realtà delle cose, invece, il luogo sociale nel quale si produce e si ridistribuisce il reddito è proprio la famiglia. Sposandosi e procreando le persone si impegnano in primo luogo a sostenersi economicamente, al di là del regime patrimoniale che scelgono: comunione o separazione dei beni. Per questo, una seria politica per la famiglia, non può in nessun modo eludere questo nodo: trovare tempi, modi e risorse per introdurre anche nel nostro sistema il meccanismo del quoziente familiare, da anni in vigore nella vicina Francia faro di molti dei nostri laicisti domestici e che invece da sempre è osteggiato dalla «sinistra fiscalista italiana» e dal suo leader incontrastato Vincenzo Visco.
Perché tanta ostilità? Il quoziente familiare, sostengono i suoi detrattori, ridurrebbe la progressività, favorendo i redditi alti, e disincentiverebbe il lavoro femminile. La prima argomentazione è falsa in punta di fatto e sbagliata in punta di principio. Falsa, perché un modello di quoziente familiare correttamente strutturato determinerebbe un fortissimo alleggerimento del carico fiscale sulle famiglie monoreddito con reddito basso. In Italia una famiglia monoreddito con 2 figli a carico e un imponibile di 25.000 euro l'anno versa allo Stato 1.725 euro di imposta; in Francia la medesima famiglia ne versa solo 52! Quanto al presunto favore alle classi più agiate, una volta di più occorre sfatare un pregiudizio. È infatti inevitabile che qualunque politica di alleggerimento delle imposte sia destinata a portare vantaggi significativi a quanti sopportano in percentuale il maggior carico fiscale. E poi, in questo caso, il problema prioritario non è neppure quello di riconoscere un beneficio a sostegno di situazioni ritenute meritevoli di tutela sociale, ma di rimuovere patenti iniquità del sistema. Iniquità che, tra l'altro, contrastano con i principi costituzionali di eguaglianza (articolo 3), di riconoscimento della famiglia (articolo 29), di favore per la formazione di nuove famiglie (articolo 31) e di capacità contributiva a fini fiscali (articolo 53): principi che per i laudatori dell'immortale bellezza della Carta del '48 non dovrebbero ammettere deroghe. Neanche in odio ai famigerati «ricchi».
Assai singolare è poi l'argomentazione relativa al lavoro femminile. Siamo consapevoli che i tassi di partecipazione al lavoro delle donne in Italia siano troppo bassi e debbano elevarsi (peraltro i dati sulle generazioni più giovani sono confortanti). Il problema però è che l'obiettivo deve essere perseguito attraverso una seria politica di sostegno alle madri che lavorano (servizi sociali, asili nido...) e non strangolando fiscalmente le famiglie nelle quali le donne non lavorano. Una strategia del genere, oltre ad essere con ogni probabilità fallimentare sul piano dei risultati, è assolutamente inaccettabile sul piano dei principi. Mutatis mutandis, appare la versione moderata di quella perseguita da un tale Pol Pot, leader sanguinario della Cambogia comunista negli anni Settanta, che per costruire il cittadino nuovo, immune dalle contaminazioni borghesi del vecchio regime, dispose l'allontanamento coatto dei bambini dalle famiglie ritenute cellule pericolose di disgregazione controrivoluzionaria.
Si attendono, dalla kermesse fiorentina di Rosy Bindi, precise indicazioni in tal senso. Caro ministro, per passare dalle parole ai fatti, non sarebbe il caso di prendere impegni precisi sulla rimozione di assurde ingiustizie tributarie? Basta, insomma, con ciance ideologiche.

E ancor prima che impegni sacrosanti per una politica a favore della famiglia - casa, asili nido, assistenza agli anziani, giovani coppie - si faccia cessare il danneggiamento attivo e continuato.
Gaetano Quagliariello

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