Politica

I cent’anni di solitudine di Greta

Stenio Solinas

«Può ridere?» chiese Ernst Lubitsch a Greta Garbo. «Penso di sì». «Le capita spesso?». «Potrebbe ridere ora?». «Facciamo domani». Il giorno successivo, nel suo studio, la Garbo si sedette sul sofà: «Bene, sono pronta a ridere» gli comunicò. «Cominci» disse il regista. «Lei rise e mi fece ridere e tutto fu meraviglioso» ricorderà anni dopo Lubitsch. «Due scemi che ridevano senza riuscire più a fermarsi. Capii allora che avrei fatto un film con lei».
Il film è Ninotchka, lanciato sugli schermi con la celebre scritta «Garbo laughs», «Garbo ride», appunto, riadattamento di quel «Garbo talks» con cui lei e le majors di Hollywood si erano lasciate alle spalle il cinema muto. Era però un riso silenzioso: di cuore, pieno, ma praticamente senza suono. I tecnici ovviarono al problema alzando il volume delle risate dei clienti del bistrò dove si svolgeva la scena.
Tutto nella Garbo era così, particolare, unico, magari imperfetto, comunque irripetibile. Sempre in Ninotchka, al termine del party in cui l'inflessibile commissaria bolscevica, sbronza e innamorata, fa il suo «Discorso ai popoli del mondo», le parole scivolano via come un incantato, incantevole sussurro: «Compagni, la civiltà sta per crollare, la borghesia è prossima all'estinzione... Ma... non subito... per favore, aspettate... non c'è fretta... ancora qualche minuto... siamo felici». Secondo Jean Lacouture, biografo di de Gaulle e di Ho-chi-minh, furono sufficienti «per rovinare un quarto di secolo di propaganda marxista-leninista».
Nel sentirle si capiva che erano vere perché la Garbo parlava anche per sé, di sé. In tutti i suoi film c'erano delle frasi, delle immagini che, certo, erano cucite addosso al personaggio interpretato, ma rivelavano più la donna dell'attrice. «Nessuno mi ha amato a lungo» dice in Grand Hotel. «Io sono stata lasciata a gelare nella solitudine. È così gelido essere famosi». E in La regina Cristina: «Sono stanca di essere un simbolo, un'astrazione, di non poter avere desideri, sentimenti, emozioni come tutti». E per il suo primo ministro che le dice: «Maestà, volete morire zitella?», c'è una risposta al maschile che è della «divina» quanto della regina: «Morirò scapolo».
Il fascino della Garbo, dunque, era fatto di tante piccole-grandi cose, imperfette ma uniche. La bellezza di un tipo tutto particolare. Un fisico alto e da spalle larghe, seno piccolo, grandi mani e piedi in proporzione, non ambigua, terribilmente femminile e tuttavia sfuggente, eterea e non carnale. La voce poi, una bionda con la voce di una bruna, profonda e malinconica, non cristallina e non gutturale, gelida ma attraversata da vampe di calore, seducente senza volerlo, scostante senza sforzo. Il modo di muoversi, un incedere rallentato ma deciso, una sorta di souplesse fatta di leggeri passi lunghi, da puledro di razza più che da felino. E infine, e naturalmente, il volto, un viso di neve luminoso, modellato come quello di una divinità pagana, una sorta di lago limpido con grandi occhi neri a fare da ancore, moderno e eterno.
A un secolo dalla nascita, il 18 settembre 1905, il nome Garbo dice ancora molto a chi è comunque overcinquanta, ma temo dica poco o niente a un ventenne di oggi, se non come immagine sbiadita di un passato ormai mitologico più che mitico. È un peccato perché oltre il personaggio, la divinizzazione, lo star system, l'incredibile fotoromanzo di una donna che sopravvisse all'attrice, i suoi film ci ricordano che fu interprete di grandissimo talento, di quelle che capitano una volta per secolo. Anche qui un talento particolare, legato a un'immagine e a un modo d'essere, da eroina tragica più che da donna contemporanea, quasi a disagio nella modernità.
C'è anche questo dietro una carriera interrotta di colpo, a 36 anni, 28 film, 14 muti e 14 parlati, in diciassette anni: non la volontà di non fare più cinema, ma l'ansia di cercare, sapendo di non trovare, il film che non la abbassasse al semplice ruolo di attrice, ma la riportasse nell'empireo della inaccessibile grandezza, della totale unicità. Greta Garbo non fece più film non perché era stanca del mondo del cinema, o perché considerata superata, o perché osteggiata. Più semplicemente, più umanamente, per paura. Il suo essere unica si trasformò in condanna. Non ci potevano essere due Garbo nella stessa persona.


Il resto, tutto il resto, gli amori, le fughe, la vita ritirata e nascosta, la paura della folla, la fama odiata eppure sapientemente coltivata, le amicizie selezionate, riservate e protettive, perfino l'immagine di una vita familiare quieta e pacificata rivendicata dal pronipote Scott Reisfield nell'appena uscito Garbo Portraits from her Private Collection (Rizzoli International) rinforzano il ritratto di una donna che a un certo punto decise di mettersi alla finestra della vita. Per guardare senza essere vista, per evitare di vedersi avendo la paura di non riconoscersi.
Stenio Solinas

Commenti