I mille identikit che nascondono un kamikaze

Giovane, bene educato, di buona famiglia. Ma dopo l’11 settembre l’aspirante martire non è più lo stesso. E i capi non si sacrificano mai

Un anno e mezzo fa Mohammed Sidique Khan era il classico ragazzo dal cuore d'oro. Alle otto in punto d'ogni mattina suonava alla porta della signora Deborah Quick prendeva Harley e Robyn e le accompagnava all'ingresso della Hillside Primary School. Quel bravo ragazzo d'origine pakistane era attento, educato e coscienzioso e molte altre famiglie, consigliate dalla signora Quick, gli affidarono i propri figli. D'improvviso, però, gli abitanti di Beeston, desolato quartiere della periferia di Leeds, non seppero più nulla di lui. Mohammed Sidique Khan tornò alla ribalta solo dopo il 7 luglio quando fu identificato come il più anziano dei quattro attentatori suicidi di Londra. Perché un giovane musulmano ben integrato nella società inglese si trasforma in una bomba umana? Cosa lo spinge? La religione? Un sorta di lavaggio del cervello praticato fra le mura delle moschee più radicali o la disperazione e la frustrazione sociale? I primi a tentare l’identikit del perfetto suicida furono gli israeliani. A metà del 2001, tre mesi prima dell'11 settembre, le bombe umane palestinesi superano già quota settanta. Secondo un rapporto dei servizi di sicurezza israeliani l'83% di quei kamikaze era single, il 49% aveva frequentato le aule universitarie, un altro 29% aveva un diploma di scuola superiore, il 64% era d'età compresa tra i 18 e i 23 anni e il 68% proveniva da Gaza. L'attentatore suicida palestinese era dunque un giovane bene educato, d'origini sociali non modeste, entrato in contatto con i gruppi fondamentalisti e trasformato in bomba umana. A spingerlo alla scelta estrema, aggiungevano gli psicologi palestinesi, non era solo la fede, ma l'umiliazione imposta dall'occupazione israeliana.
L'11 settembre introdusse nuove incognite. Mohammed Atta capo dei kamikaze delle Torri Gemelle era il figlio di un ricco avvocato egiziano mandato a studiare ad Amburgo. Il libanese Ziad Jarre, uno dei quattro dirottatori del volo 93, schiantatosi in Pennsylvania era, come raccontò a Il Giornale il padre, «un ragazzo che non pregava mai, scherzava con le ragazze e quando tornava a casa andava a tutte le feste... non certo un fondamentalista».
La terza incognita emerse dopo le stragi di Madrid quando gli organizzatori degli attentati preferirono zainetti esplosivi alle bombe umane. Una tattica micidiale, ma priva di quell'aurea di fanatismo conferitale dal sacrificio estremo. L'anomalia di Madrid mette in luce il filo rosso del terrorismo suicida islamico. In questa sciarada di morte i mandanti, gli ideatori degli attentati o comunque i militanti già integrati all'interno di Al Qaida o delle organizzazioni palestinesi non vengono mai mandati al sacrificio. Quando, come a Madrid, mancano pedine affidabili, capaci e non sospette, i militanti colpiscono, ma si risparmiano l'atto suicida. La vita di capi, comandanti e predicatori è sacrificabile solo in condizioni estreme. Nel caso spagnolo solo quando i terroristi vennero circondati dalla polizia all'interno del proprio covo.
L'attentatore suicida viene sempre reperito al di fuori dell'organizzazione, in quella cerchia grigia di fedeli conquistati dai sermoni dei predicatori più estremisti. Sia i kamikaze palestinesi, sia le bombe umane di Al Qaida non devono «militare», ma semplicemente prepararsi a morire per la causa. Anche i viaggi in Pakistan e Afghanistan svolti dagli attentatori di Londra non servono a completare un particolare addestramento, ma solo ad affinare l'affidabilità e la propensione al sacrificio. L'esperienza di Londra e le indagini svolte in Olanda dopo l'uccisione del regista Theo Van Gogh dimostrano che i migliori esemplari di terroristi suicidi «europei» crescono, dopo l'11 settembre, tra i figli più politicizzati degli immigrati musulmani.

Affascinati dai sermoni più radicali e dai siti fondamentalisti che illustrano le stragi degli «infedeli» in Afghanistan, Iraq, Cecenia e Palestina questi giovani vivono quotidianamente il conflitto tra la società occidentale e le prediche dei loro cattivi maestri. E di quei cattivi maestri diventano talvolta gli strumenti preferiti.

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