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Iggy Pop torna per spiegare come restare punk a 75 anni

Le canzoni di "Every loser" sono selvagge e impopolari. "Sono ancora il ragazzo senza camicia che spacca"

Iggy Pop torna per spiegare come restare punk a 75 anni

Uno dice no dai che è bollito, manco sta in piedi. Poi ascolta Every loser e ciao. Tra i bolliti e Iggy Pop c'è più distanza che tra i Rolling Stones e i Bts e questo disco, il suo diciannovesimo, è uno schiaffone suonato come se fossimo negli '80 ma va bene così. Le icone non invecchiano, solo gli imitatori invecchiano. Iggy Pop lo chiamano il padrino del punk, magari è esagerato ma senza dubbio adesso ne è il manifesto più vero, quello che resta fedele alla linea anche se la linea è più aggrovigliata delle rughe che gli irrigano il volto.

A 75 anni sembra un rottame e ci mancherebbe con la vita che ha fatto. L'altro giorno ha raccontato che gli fu offerto di entrare negli Ac/Dc «ma non ricordo quando». Come se fosse una cosa da tutti i giorni. Ora Iggy Pop ha pure smesso di fumare ma qualche anno fa ha condensato così il suo rapporto con le droghe: «Ho esagerato con l'Mdma negli anni '70. E a un festival, il Goose Lake, sniffai qualcosa che dicevano fosse cocaina, ma in realtà era ketamina. Non sapevo più neanche chi fossi. Ho fumato crack ancora prima che fosse chiamato crack. Spaventoso». In quel periodo era talmente incapace di controllare il suo abuso di droga che si ricoverò da solo in un istituto di igiene mentale. Ed era talmente solo che David Bowie, conosciuto anni prima al Max's Kansas City, un night club e ristorante di New York, fu uno dei pochi a fargli visita in ospedale.

Con gli Stooges o senza, Iggy Pop è sempre stato un solitario, così tanto solitario che ha rifiutato per anni il Grammy Award alla carriera perché «odio quella gente». Insomma, compromessi zero. Non a caso nel 1990, dopo decenni di carriera, ormai già famoso in tutto il mondo, «passai l'inverno a gelare, in casa non avevo il riscaldamento». Però l'apparenza inganna e Every loser è molto più giovane di tanti dischi pubblicati da giovani che sono già vecchi. Chitarre nervose, batteria secca, pochi accordi, arrangiamenti a zero o quasi anche nel bel singolo Strung out Johnny, che sarebbe stato bene già nel disco Blah blah blah del 1986. Ovvio, Every loser non è un capolavoro, non è Lust for life del 1977 e meno male perché i dischi meravigliosi possono solo essere ricordati, non replicati. Ma è un piacere passare attraverso i controcori di New Atlantis e trovare nel riff di All the way down gli echi di un punk metallizato che da solo è il biglietto da visita di uno stile di vita. Per capire lo spirito di James Newell Osterberg Jr., nato nel Michigan nel 1947, detto Iggy perché nel 1963 suonava già la batteria negli Iguanas, basta ascoltare l'inizio di Frenzy e i primi versi di Morning show. Una schitarrata tagliente. E una voce che sembra Elvis alla centesima pillola. Tra graffi di chitarra e ballate da notte fonda, nelle canzoni di Every loser non c'è nulla che vada di moda, niente beat o autotune, e molto difficilmente le ascolterete alla radio, luogo che peraltro Iggy Pop ha frequentato raramente perché troppo ruvido il suo repertorio e troppo spigoloso il suo carattere per diventare «mainstream». Quando vide Jim Morrison con i Doors dal vivo alla Michigan University era il 1967 e allo scontroso James Osterberg venne voglia di trasformare anche lui il palco in una palestra di ossessioni, esagerazioni, oscenità.

Prima con gli Stooges (epocale il disco Raw Power del 1973, clamoroso insuccesso rivalutato anni dopo) e poi da solo Iggy è sempre stato un animale da palcoscenico, un ossesso in preda alla musica, e talvolta non solo a quella. Ogni show era un rito tribale. Oggi dice che «non mi lancerò più dal palco» e forse ricorda quando nel 2010 si buttò in mezzo al pubblico alla Carnegie Hall di New York ma il pubblico si spostò e lui, paf!, finì con la faccia sul pavimento.

Comunque continua a essere «il ragazzo senza camicia che spacca» e non a caso il New York Times ha scritto che «orgogliosamente sboccato e arrabbiato in modo convincente, Iggy Pop si scaglia in tutte le direzioni». E lo fa insieme a Duff McKagan dei Guns N' Roses, al batterista dei Red Hot Chili Peppers Chad Smith, a Travis Barker dei Blink 182, Stone Gossard dei Pearl Jam, Josh Klinghoffer, Dave Navarro e a altri purosangue del rock muscoloso che danno al disco un suono compatto, ruvido, totalmente impopolare.

D'altronde uno che canta «non so come morire, non so come piangere» (in Modern day rip-off) non vuole mica essere popolare, ha soprattutto bisogno di sfogarsi.

Iggy Pop lo fa per la diciannovesima volta in un disco dopo averlo fatto ogni giorno per settantacinque anni in una vita senza binari che lo ha portato a essere «troppo traballante» per saltare dal palco ma non abbastanza per dare un altro calcio ai luoghi comuni.

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