Controcultura

Le incantevoli riscoperte del Rinascimento segreto

Dal Maestro delle Anconette ferraresi ad Antonio da Crevalcore. Ecco i tesori di privati e fondazioni

La Sacra famiglia di Antonio Leonelli da Crevalcore
La Sacra famiglia di Antonio Leonelli da Crevalcore

Il Rinascimento segreto. Mi fu chiaro, fin da subito, che doveva essere questo il titolo per una mostra rivelatrice, in tre sedi, il Palazzo Ducale di Urbino e i Musei Civici di Pesaro e di Fano. Mille difficoltà hanno rallentato il progetto che oggi si dispiega luminoso. Siamo di fronte a una notevole quantità di dipinti e sculture provenienti prevalentemente da importanti collezioni private, da fondazioni bancarie, da merchands amateurs. Sono opere dissepolte e, per ovvie ragioni, assai difficili da vedere e, talvolta di eccezionale interesse.

Si inizia con un indiretto omaggio a Roberto Longhi, e alla sua indimenticata Officina ferrarese, che delimita nuovi confini per l'arte del Rinascimento nel nord d'Italia. Il territorio si allarga dai già conosciuti maestri gotici di casa Pendaglia al sorridente Maestro delle Anconette ferraresi. In apertura del nuovo millennio egli si presenta a noi, carico di 550 anni di storia, in una Natività con una festosa chioma di angeli, indice della sopravvissuta civiltà tardogotica che ancora, in quegli anni, ammicca a Gentile da Fabriano, e al grande Michele Giambono. Sempre in ambito emiliano si incrocia l'affine Antonio de Carro, espressione del tardogotico a Piacenza, a cavallo fra Trecento e Quattrocento: il suo Sant'Agostino consuona con il polittico del monastero di Santa Franca a Piacenza, ora a Parigi, nel Musée des Arts décoratifs, del 1398.

Una preziosa novità, in questo Rinascimento umbratile, è il Cristo in pietà fra gli angeli di Niccolò di Liberatore detto l'Alunno, una più sofisticata versione della tavoletta ora al Musée du Petit Palais di Avignone, con il motivo a rilievo in pastiglia delle aureole e dei chiodi della croce. Non diversamente il San Sebastiano di Pietro Perugino, variazione del dipinto del Nationalmuseum di Stoccolma, con una notevolissima rarefazione del paesaggio fino a trasfigurarsi in un esteso azzurro di minuziosa esecuzione, che rimanda al Pinturicchio. Intorno al 1490 cade anche la Madonna con il Bambino di Liberale da Verona, una tavola di lunga memoria mantegnesca, con l'invenzione della tenda verde mossa e tagliente per potenziare i valori plastici delle due figure. Ritorna anche Nicolò Giolfino, in una delle sue prime prove, mostrando un primo avvertimento di Raffaello. Di ben più alta qualità, e integro mistero, e l'opera simbolo della mostra: la Sacra famiglia di Antonio da Crevalcore, nella quale le reminiscenze mantegnesche si ravvivano in una sofisticatissima decorazione di cui è prova il disegno della tenda che fa da aureola alla testa della Vergine. Il pittore, raro, diviso fra Bologna e Ferrara, manifesta un programmatico arcaismo. Alla scuola bolognese, nella variabile anticlassica, opposta al Costa e al Francia, appartiene anche Amico Aspertini: in un'opera di ritmo elastico come il poco conosciuto monocromo con l'Amazzanomachia se ne riconoscono le caratteristiche che indussero il Malvasia a definirlo: «uomo capriccioso e fantastico, che a la maniera di nissuno mai volle assoggettarsi». A Ferrara, in quegli anni di inizio secolo, il campo è tenuto da giovani artisti che, dopo la stagione dei grandi maestri quattrocenteschi, manifestano capricciose curiosità anche per il mondo nordico, dopo il secondo soggiorno veneziano (1505) di Dürer che turbò Lorenzo Lotto: ve ne è traccia nell'Ortolano, presente con due ariosi tondi, e, in particolare, nello scintillante e prezioso Ludovico Mazzolino. Lo vediamo nella concentrata Madonna con il Bambino e i santi Pietro, Paolo e Maddalena, proveniente dalla collezione Costabili e databile 1507-1508.

Tornando in Romagna, nell'ambito stretto di Melozzo e di Palmezzano, senza tentazioni bolognesi, si pone Bernardino da Tossignano con la plastica pala della Santa Croce, firmata e datata 1515. La data è cruciale perché corrisponde all'anno in cui Raffaello inviò a Bologna la sua Santa Cecilia. Il confronto è impietoso, per quanto di poeticamente arcaico nelle figure e nel paesaggio sopravvive in Bernardino. D'altra parte questo handicap si riscontra anche in un pittore raffinato come Girolamo Marchesi da Cotignola, la cui svolta raffaellesca è fatta risalire al 1520. Eppure, già nella coppia qui riunita, con il Santo Vescovo della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini e il San Sebastiano della collezione del Castello di San Martino in Soverzano, databili intorno al 1515, si respira un'aria più libera nel rapporto figura/paesaggio, grazie alla intuizione della grande porta di pietra. Le due tavole rivelano una personalità colta che si esercita su una originale idea di spazio interno/esterno, con il diaframma della cornice che riquadra il paesaggio, rivelando meditazioni e curiosità sui solenni modelli di Bellini (da cui mutua Marchesi l'idea dello schienale del trono, come spazio aperto) e di Piero della Francesca.

Una più ricca e coltivata visionarietà ritroviamo nel ferrarese Dosso Dossi, nella tavola con Santa Paola, databile al 1527-1528, ancora condizionata dal paesaggio giorgionesco di dorate, remote memorie, in un romantico crepuscolo senza fine. Dosso unisce Giorgione, Raffaello e il più giudizioso e statuario Ortolano, in un suo fervidissimo idillio. Un giardino incantato come quello parallelo dell'Orlando furioso, la cui seconda edizione risale al 1521. Alla ortodossia raffaellesca risale il Garofalo, presente con una prova d'ordinanza, una Madonna con il Bambino, da me identificata una decina di anni fa in una collezione di Carpi, in rapporto con la versione del Louvre: un tema che segnala, nel gesto della Madonna che ripara il figlio con il velo, un'intesa, anche psicologica, con il Lotto degli stessi anni. Una relazione non sufficientemente indagata.

Propizia è l'occasione segreta di Urbino per ripresentare il destrutturato e protocubista San Rocco, riconosciuto nel 1912 al Parmigianino da Corrado Ricci, frammento di una delle «due tele a guazzo per maestro Luca dai Leuti con certe gurette di bellissima maniera», di quel cruciale 1527 che vede il ritorno di Parmigianino in Emilia, dopo il sacco di Roma. Un idillio involontario del Parmigianino, derivato dalla mutilazione di una tela più grande: qui San Rocco sembra solitario nella desolazione della natura. Un importante ritrovamento è il Giovan Francesco Penni, l'Allegoria della Buona Speranza, già riferita a Raffaello nella galleria del Palazzo Borghese di Ripetta. Raffaello è egemone anche nella matura e corrusca visione di Giulio Romano, presente con la Madonna con il Bambino, sant'Anna e san Giovannino della Fondazione Cassa di Risparmio di Fermo, in relazione con la Madonna della perla di Raffaello (ora a Madrid), ma databile già oltre al 1520.

Un altro maestro concomitante, di osservanza raffaellesca, pur nell'ambito della provincia ascolana, è Cola dell'Amatrice, come ci appare nella pressoché inedita tavola con la Sacra Parentela, dove si registra la sovrapposizione di una concezione moderna, raffaellesca, su una severa, rigida, statuaria tradizione quattrocentesca, se non medievale. Cola si candida, nei suoi più euforici anni, a essere un artista eccentrico riparato nelle Marche, soprattutto ad Ascoli Piceno, non disponibile a competere a Roma, ma desideroso di mostrarsi informato e ricettivo rispetto ai pensieri nuovi di Raffaello e di Michelangelo. Al terzo e quarto decennio del Cinquecento, appartengono le tre tavole assai pregevoli della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria: due di Defendente Ferrari e una di Gaudenzio. È forte il contrasto con i maestri marchigiani e dell'Italia centrale, per un imperturbabile goticismo e per una ieraticità che rifuggono da ogni concessione al naturale, radicalmente perseguita nell'ambito raffaellesco. Ma non si tratta di sopravvivenza di un tempo perduto, bensì di una diversa sensibilità che non vuole accostanti immagini sacre, ma coltiva la distanza e la ritualità. Esse parlano del divino, non dell'umano. Altrettanto distante, benché diversa, l'esperienza di Gaudenzio Ferrari, la cui determinante formazione è legata alla generazione precedente quella di Raffaello, di cui è pur coetaneo. Egli ha respirato l'aria di Leonardo, Bramantino, Perugino, interpretandola in una chiave di affabilità quotidiana, in una spazialità forzata dal motivo del pozzo circolare. Ancora a Parmigianino, dominus della cultura manieristica padana, guarda Lelio Orsi nella bella pala di cui sopravvive il fragoroso ed eloquente frammento con San Giuda, imponente testimonianza di un michelangiolismo assorbito assai probabilmente nella vicina Mantova (Orsi era di Novellara), e forse anche attraverso una conoscenza diretta a Roma, dove il pittore fu in due momenti, nel 1545 e nel 1554-1555.

La sezione di Urbino si chiude con una notevole sequenza di disegni scelti da Peter Silverman e Kathleen Onorato, fra i quali due preziosi Raffaello.

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