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Obama non c'è più: senza magia si attacca ai numeri

Oggi al via la Convention democratica. Il presidente chiede la riconferma. Per ottenerla deve sperare che la disoccupazione cali. Ma per ora continua ad aumentare

Obama non c'è più: senza magia si attacca ai numeri

C'è una certezza che accompagna Barack Obama in questi giorni: l'America sta peggio di prima. Peggio di come l'ha trovata. Peggio del 2008. Chiede un altro mandato, il presidente. Si presenta sul palco della convention democratica di Charlotte per chiedere al Paese di sceglierlo ancora. Altri quattro anni. Perché? La domanda a cui deve rispondere Obama è questa. E arriva dopo un'altra: che cosa ha fatto finora? Il presidente che doveva cambiare il mondo, l'uomo che ha ispirato più di mezza America e un bel pezzo di pianeta, il politico nuovo che doveva scavalcare la partigianeria, il leader che doveva ridare lavoro e speranza ai disoccupati si ritrova oggi a dover lottare per la riconferma alla Casa Bianca. A quelle domande, Obama può rispondere senza convinzione: ha fatto la riforma della Sanità e ha ucciso Osama Bin Laden. Non poco, certo. Il primo è un successo politico che non gli ha creato molto consenso popolare: la conferma da parte della Corte Suprema del testo della nuova legge sulla sanità è una vittoria indiscutibile che trova più sponde in Europa che in America. La morte di Bin Laden, invece, fa l'effetto opposto: ha suscitato conforto nella gente d'America e però diverse polemiche politiche e diplomatiche.

La riforma della sanità e il blitz contro il capo di Al Qaida sono due fatti, comunque la si veda. Il problema è un altro, però. E cioè che né la società americana, né la sicurezza nazionale oggi sono centrali. Obama vive e amministra un Paese in crisi, concentrato solo e soltanto sull'economia, depresso da numeri che non vanno e da voglioso di vedere la luce alla fine di una notte troppo lunga. È il Paese che sta peggio del 2008. È la dannazione della Casa Bianca, è l'assist a Mitt Romney che può proporsi al Paese come salvatore: Obama ha fallito, scegliete me. L'Economist ha riassunto in poche righe la situazione, aggiungendo il carico di alcune promesse politiche non mantenute: «Ci sono tre milioni di americani senza lavoro in più rispetto a quattro anni fa. Il debito pubblico è cresciuto di 5mila miliardi. La divisione politico-ideologica è più forte che mai, con la riforma della sanità che è diventata la prima fonte di rancore tra liberal e conservatori; l'Iran resta pericoloso, la prigione di Guantanamo è ancora aperta».

Sono le stesse critiche che qualche settimana fa ha fatto Newsweek: «La disoccupazione avrebbe dovuto essere del 6 per cento, a quest'epoca. Quella di quest'anno è stata invece in media dell'8,2 per cento. Nel frattempo il reddito reale medio familiare annuo è sceso di oltre il 5 per cento dal giugno 2009. Quasi 110 milioni di persone hanno ricevuto un sussidio sociale nel 2011. Benvenuti nell'America di Obama: dove quasi la metà della popolazione non risulta avere un reddito imponibile - quasi esattamente la stessa porzione della popolazione che vive in una famiglia in cui almeno un componente riceve un qualche tipo di sussidio o sostegno dallo Stato. Stiamo diventando una nazione fifty-fifty: la metà di noi paga le tasse, l'altra metà riceve i benefici».

C'è un mondo di anti-obamiani che cresce, sapendo che non tutte le colpe sono del presidente, ma avendo in mente anche che le aspettative che lui aveva creato e che gli altri avevano alimentato sono state deluse. È un momento complicato per lui. La prova ultima è che gli ultimi dati sull'andamento dell'economia, a partire da quelli sulla disoccupazione saranno resi noti dopo il discorso di Obama a Charlotte: saranno pessimi, evidentemente. Fossero stati buoni, li avrebbero tirati fuori in fretta, ora, a ridosso della convention per fare da traino al suo intervento.

L'elezione che un anno fa sembrava scontata, adesso non lo è più. Un candidato repubblicano non del tutto convincente come Romney adesso lo tallona, lo minaccia, lo mette in difficoltà. Mancano due mesi al voto, ma saranno due mesi di campagna pesante, vera, dura. È un voto da uno-due al totocalcio. Niente di scontato, niente di prevedibile. Obama ha il vantaggio di essere il presidente. Conta ancora nella politica americana. Conta ancora quel rispetto nei confronti della Casa Bianca che ha garantito, nel Novecento e poi nel Duemila, il secondo mandato a tutti i presidenti tranne tre (Ford, Carter e Bush padre). Non solo: oggi Obama è anche in vantaggio nei sondaggi di molti degli Stati chiave nei quali si decideranno le elezioni del prossimo 6 novembre. Però questo Obama non c'entra nulla con quello che ispirava fiducia quattro anni fa: ha perso il tocco, ha perso la voce, ha perso il sorriso. Per i suoi detrattori non li ha mai avuti, è stata la proiezione che gli altri hanno fatto su di lui dei propri desideri a spingerlo fino al cuore di Washington. A chi gli chiede che cosa hai fatto, allora, il presidente può rispondere a denti stretti: può vantare meriti che però sono incredibilmente irrilevanti per la situazione attuale. Succede. È la vita, è la politica.

Allora risponda all'altra domanda, per provare a tenersi il Paese: che farà nei prossimi quattro anni? Il programma parla di aumentare le tasse ai più ricchi e di dare sgravi alla classe media, insiste sulla necessità di una sanità per tutti, continua con la green economy (anche se meno convinto di prima), vuole soluzioni di politica internazionale concordate con l'Onu. Poco. Molti si aspettano un altro messaggio, il nuovo yes we can. Il paradosso è che adesso l'unica ispirazione sono i numeri, quelli orribili di queste ore: più posti di lavoro recupererà l'America in questi due mesi, più il presidente s'avvicinerà alla conferma. Obama fa la danza dell'occupazione.

Senza magie, quelle non servono più.

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