Politica

L'Italia dei presidenti: quegli undici "azzurri" che hanno fatto squadra

Notarili o donnaioli, silenziosi o picconatori, amati o sopportati. Ecco la storia del Paese letta attraverso gli inquilini del Quirinale

Il Quirinale ripreso dalla terrazza del palazzo della Consulta a Roma
Il Quirinale ripreso dalla terrazza del palazzo della Consulta a Roma

Quando il primo luglio del 1946 a mezzogiorno la folla cominciò a vacillare per il caldo, fiorì la battuta: «La Repubblica è già in ritardo di mezz'ora». La Repubblica era in realtà il primo presidente Enrico De Nicola, che per civetteria non aveva voluto assistere alla sua elezione stando a Roma, ma si era ritirato a Torre del Greco. Da presidente della Camera nel 1924 si era precipitato a porgere i suoi omaggi a Mussolini che aveva appena finito di parlare, dicendo: «Mai, dai tempi di Cavour, quest'aula aveva udito un discorso simile...».

De Nicola fu il primo, anche se col titolo di capo provvisorio dello Stato e dovette cimentarsi con il quesito: «E adesso? Che faccio?». La Costituzione era vaga e perentoria, come sempre. Le funzioni non chiare. Bisognava fare della presidenza un lavoro di bricolage, un fai da te. E così fu poi per tutti i 67 anni successivi. Chi si considerò un passivo notaio, come Leone (che anche per questo finì in pellicceria) e chi si considerò un picconatore (e stavano per mandargli un'ambulanza con la croce verde), chi fu ingiustamente sospettato di tentato golpe come Antonio Segni (il «tintinnar di sciabole» udito da Pietro Nenni) e chi prima di lui fu accusato, Giovanni Gronchi, di voler imporre un suo presidente del Consiglio di sinistra (Fernando Tambroni) che poi si rivelò molto di destra.

Ma andiamo per ordine. Dopo De Nicola, napoletano verace, fu la volta dell'austero piemontese Luigi Einaudi, quello che tagliava la pera e offriva spicchi ai suoi ospiti per non essere accusato di spreco. Il suo breviario sul comodino, Le riflessioni, l'economia, la ventata liberale che fu l'unica che l'Italia abbia mai avuto. Giovanni Gronchi era un gran bell'uomo e aveva fama di donnaiolo. Quando morì, si sparse la voce che il suo fisico avesse ceduto durante una sessione erotica alla Lewinsky. Famoso perché fu emesso un francobollo, il Gronchi rosa, che essendo sbagliato diventò la preda dei collezionisti. Era amico di Enrico Mattei e sotto la sua presidenza, durante il governo Tambroni, accaddero i «fatti di luglio» del 1960, moti rivoluzionari dominati dai quadri del Pci che gettarono l'allarme in tutto l'Occidente.

Segni fu un gran conservatore, un democristiano di destra testardo, non si fidava dei socialisti e metteva becco su tutto. Scatenò la reazione della sinistra e resse botta malgrado una campagna furiosa contro di lui. Morì per un ictus e la leggenda vuole che si fosse sentito male durante un alterco con Giuseppe Saragat. Che fu il suo successore. Saragat fu un presidente gioviale con la mania dei telegrammi. Ci scappava un morto, smottava una frana, accadeva un fatto di media importanza e subito Peppino Saragat telegrafava. Jannacci gli dedicò la canzone Giovanni, telegrafista. Beveva. Alzava il gomito, amava più il vino che le donne e si disse che la mattina al Quirinale si facesse l'alza Barbera e che il tricolore fosse Bianco Rosso e Verdicchio.

Giovanni Leone era il presidente notaio per eccellenza, si fece i fatti suoi lasciando ai politici il loro mestiere e la pagò cara. Ingiustamente, fu aggredito da una campagna di stampa lanciata dall'Espresso e La Repubblica che lo accusarono di ogni sorta di malversazione. Camilla Cederna scrisse su di lui un pamphlet micidiale e pieno di falsità per cui fu condannata in tribunale e alla fine Leone dovette dimettersi. Si disse che l'operazione fossa stata condotta per far posto a un altro candidato, ma l'uomo che sarebbe dovuto succedere a Leone fu Sandro Pertini, sull'onda emotiva del rapimento di Aldo Moro e poi della sua uccisione. Pertini capì come girava l'Italia e fece di sé un personaggio irresistibile. Toto Cutugno compose la famosa canzone con il verso «un partigiano come presidente». Fu il primo uomo politico che lanciò l'allarme contro il Kgb sovietico, lasciando di sale tutta la sinistra. Aveva un caratteraccio ma passò per il nonnino buono della Repubblica. Gli piacevano le donne in maniera pazzesca e ricordo quando sbirciava la scollatura della regina Sofia di Spagna, che nei primi anni Ottanta era una bella donna. Dispensava retorica e saggezza e se ne andò a malincuore lasciando la poltrona al mite Cossiga di cui nessuno sapeva nulla e che passò inosservato fino alla fine, quando d'improvviso si mise ad attaccare il sistema politico «togliendosi i sassi dalla scarpa».
Io fui suo amico e per molto tempo l'unico giornalista con cui si confidasse. Lottammo insieme contro il tentativo di Scalfari di farlo fuori costringendolo alle dimissioni. Dopo Francesco Cossiga venne il tetro e retorico Oscar Luigi Scalfaro, uomo poco simpatico, poco comunicativo, un uomo che divise il Paese. Ciampi, ci avviciniamo ai giorni nostri, ebbe il merito di tirare fuori il tricolore e l'inno nazionale dalla naftalina e quanto a retorica non se la cavò male anche lui. Un uomo pacato, determinato e dalle incredibili sopracciglia brezneviane.

E arriviamo così a Giorgio Napolitano, il re Umberto della Repubblica, l'uomo che ha cercato e cerca di convincere l'incredibile Bersani a non pensare soltanto ai fatti suoi e alla sua segreteria, ma anche un po' al bene del Paese che vorrebbe un governo subito e che ha perso un punto di Pil per la sua testardaggine. Napolitano si rifiuta di essere rieletto, ma potrebbe capitargli in sorte, fra capo e collo, una rielezione non desiderata per succedere a se stesso.

Sarebbe la prima volta, ma c'è sempre una prima volta.

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