Politica

Napolitano-Scalfari I ricordi da ex fascisti

Nel lungo colloquio pubblicato ieri su Repubblica, i due ripercorrono con giustificato distacco i trascorsi fascisti

Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano

Ha qualcosa di istruttivo il lungo colloquio fra Giorgio Napolitano e Eugenio Scalfari pubblicato ieri su Repubblica, un'amabile e onesta chiacchierata fra due figure istituzionali, la prima in senso proprio, dal punto di vista del potere politico, l'altra in senso simbolico, dal punto vista del potere dei media. Due personalità, fin dalle foto, ieratiche, apparentemente «al di sopra» delle scelte comuni e dei compromessi quotidiani - una icona del comunismo di ferro l'altra del progressismo intransigente - e che pure rivelano tutta l'accomodante e domestica italianità delle proprie biografie, dei propri dubbi, delle proprie scelte. Classe 1924 Eugenio Scalfari, partito dal settimanale Roma fascista e arrivato a principe del giornalismo italiano; classe 1925 Giorgio Napoletano, partito dal Pci e arrivato al Colle; i due grandi vecchi d'Italia, raccontando loro stessi, hanno raccontato una comunissima e familiare storia italiana, in cui tutti citano Benedetto Croce e solito «non possiamo non dirci liberali», in cui si evoca il padre fascista (e nel caso di quello di Napolitano scopriamo che «sotto il regime visse appartato, esercitando la professione di avvocato fino alla fine degli anni Trenta senza iscriversi al Pnf. Poi finì per prendere la tessera»... anche lui...), in cui si ripercorrono con giustificato distacco i trascorsi fascisti (Napolitano frequentava il Guf, ma perché si poteva studiare meglio e lì del resto «si formarono anche molti antifascisti e comunisti», Scalfari orgoglioso di essere «un giovane fascista» espulso dai Guf da uno dei capi del Pnf e «ciò mi fece venire dei dubbi»...), entrambi protagonisti di viaggi più o meno lunghi «attraverso il fascismo» per approdare sulle sponde dell'Italia democratica e progressista, dove ci si iscrive al Pci «più per impulso morale che per una scelta ideologica», e dove, se ti chiedono di accettare una rielezione (come tante altre cose da noi), anche se sei «profondamente convinto di lasciare», alla fine «non puoi dire di no».

Che è una splendida risposta, così comune, tutta italiana.

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