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Gli agenti che hanno tolto il casco: "È vero, solidali con chi protesta"

Un agente in servizio lunedì a Torino: "Con quel gesto abbiamo voluto esprimere vicinanza a chi sta subendo ciò che stiamo subendo anche noi come cittadini"

Gli agenti che hanno tolto il casco: "È vero, solidali con chi protesta"

Roma - I poliziotti a capo scoperto diventano un caso. Il giorno dopo l'episodio viene ridimensionato, per il ministro Alfano era solo l'ordine di un funzionario. Altri comprendono il malcontento, ma negano si sia manifestato togliendo i caschi. Qualcuno si discosta dal coro, come il segretario del Siulp Felice Romano. «La protesta, civile, c'è stata eccome - spiega - e che a nessuno venga in mente di avviare procedimenti disciplinari. Al ministro dell'Interno dico: se vuole punire qualcuno, punisca me. Condivido in pieno quel gesto». Ma quello che è successo lunedì può spiegarlo chi era sul campo. Come Luca (nome di fantasia, ndr), 30 anni, da 10 al reparto mobile. Uno dei poliziotti che presidiavano piazza Castello, a Torino. «Sembrava un giorno in piazza come purtroppo ce ne sono tanti», racconta. «C'erano violenti e facinorosi che cercavano sfogo e visibilità, e in quel contesto, con fermezza, abbiamo respinto le frange violente, contando due feriti tra i miei colleghi: uno colpito da un sasso, uno stordito da una bomba carta. Poi, a un certo punto, davanti a noi c'erano solo manifestanti pacifici. Ed è successo».

Vi siete tolti i caschi.
«Sì. E sia chiaro, io non ho seguito alcun ordine, ci siamo solo parlati tra di noi. È stato un gesto proiettato a dare solidarietà e vicinanza a chi - padri di famiglia, imprenditori, commercianti - sta subendo ciò che anche noi, cittadini e poliziotti, subiamo. Una delle ragioni è che il fisco soffoca respiro, speranze e sogni di ogni cittadino, noi compresi. Siamo poliziotti, riconosciamo chi abbiamo di fronte: quella gente esprimeva disagio, e noi ci siamo sentiti parte di quel popolo e di quel disagio, stanchi come loro di essere un bersaglio, di essere vittime di logiche di parole».

Insomma, siete passati dall'altra parte?
«No, abbiamo continuato il nostro lavoro. Ma con un gesto che dicesse “vi siamo vicini”. Anche noi siamo malpagati e sfruttati, abbiamo lo stipendio bloccato dal 2009, siamo in piazza per quattro soldi che vedremo, tra l'altro, dopo anni. La verità è che la solidarietà è venuta spontanea e facile. Un tempo c'era incertezza del futuro, ora c'è incertezza del presente. Mio padre ha perso il lavoro con questa crisi, come potevo non sentirmi parte di quel malcontento?».

Di certo, il gesto è diventato un caso. Ma per Alfano è stato solo un ordine.
«Detto che non abbiamo ricevuto pressioni dirette a “minimizzare”, nei video è chiaro che il gesto è stato istintivo, partito dall'interno: anche carabinieri e finanza l'hanno fatto. È stata una cosa assolutamente genuina, qualcuno dei nostri era persino commosso. L'unico ordine che ho sentito io era quello di togliere le maschere. La cessata esigenza, semmai, l'abbiamo percepita noi».

Aprendo un dialogo con chi manifestava.
«Ci hanno applauditi. Abbiamo scambiato sorrisi, non parole. Quelle sono servite tra noi, poi, per capire se c'era stato un ordine. E non c'è stato».

Disobbedienza civile. Succederà ancora?
«Nell'immediato penso di no. E comunque nessuno ha disobbedito. Abbiamo espresso in modo civile, lavorando, il nostro malcontento, un sentimento diffuso e condiviso. Non ne possiamo più di essere maltrattati, malpagati, usati nelle piazze come molla di rimbalzo per le legittime aspettative di chi manifesta pacificamente quando i primi a non essere tutelati, a non ottenere risposte, siamo noi. Lunedì, per esempio, contavamo quanti “pezzi” d'uniforme fossero comprati di tasca nostra: anfibi, maglia in pile, scaldacollo. Ma la disobbedienza non ci appartiene.

È stato un gesto di solidarietà, che amalgama poliziotti e cittadini».

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