Economia

Da Agnelli a Elkann: la famiglia resta in sella e riscopre l'auto

Le dinastie d'impresa non superano di solito la terza generazione. Il Lingotto sembra sfuggire alla regola

Da Agnelli a Elkann: la famiglia resta in sella e riscopre l'auto

Da Giovanni a John. Da Giovanni Agnelli detto Gianni, personaggio fascinoso, che spaziava dal mondo industriale, finanziario, politico, sportivo e mondano, a John Elkann, suo nipote prediletto, schivo e riservato, fuori dal gioco politico, concentrato per la finanza, il gruppo Fiat, ha cambiato natura e destino. Ora non è più una compagnia italiana con diramazioni internazionali, in cui l'auto in crisi è una componente in declino che rende difficile far quadrare il bilancio del gruppo. Ora c'è una multinazionale (Fiat Chrysler Automobiles) in cui l'auto è dominante, nel fatturato e negli utili, in crescita come per Fiat cento anni fa, quando era guidata dal suo primo leader, un Agnelli, che si chiamava anche lui Giovanni. Varie leggi storiche, collaudate dall'esperienza, in questa vicenda sono sfatate.

Il mago di queste mutazioni, che ha gestito il gruppo da quando dieci anni fa ne ha rilevato il comando, è Sergio Marchionne. Ma l'accomandita di controllo ci ha messo le sue risorse. E una legge storica è stata sfatata. Si dice, infatti, che alla quarta generazione le grandi società controllate da una famiglia o declinano o passano di mano, perché gli eredi non sono più in grado di tenerne le redini. Gli esempi di questo genere sono moltissimi. Elkann, con Marchionne, invece, ha invertito il trend. La prima innovazione del giovane presidente, insieme al suo ad, è consistita nel riconcentrare sull'auto le maggiori energie finanziarie, industriali e gestionali, mentre molti reputavano che, essendo il mercato automobilistico europeo caratterizzato da una capacità produttiva in eccesso rispetto alla domanda, conveniva accentuare la diversificazione, che Gianni aveva attuato, o cedere il settore auto in blocco o a bocconi. E, in conseguenza, è stata giocata la seconda carta, connessa alla prima, quella di cercare di fare acquisizioni, anziché vendere pezzi di argenteria come l'Alfa Romeo.

Fu tentato l'acquisto di Opel, da General Motors, che non andò in porto per l'opposizione politica tedesca. Poi fu giocata la carta dell'acquisizione di Chrysler, che era in grave difficoltà, non tanto per la crisi finanziaria che aveva colpito gli Usa e si stava per propagare in Europa, quanto perché era fallita la sua fusione con Daimler, la grande casa tedesca che produce le Mercedes. Ed era ferita a morte. E qui è stata rotta un'altra legge storica, quella che i tedeschi sono più bravi degli italiani, nel settore metalmeccanico, sia per la loro tradizione e cultura sia perché dispongono di una finanza più robusta della nostra. Se non c'erano riusciti i tedeschi, e risanare e rilanciare Chrysler, come ci potevano riuscire gli italiani, con Fiat specializzata nelle piccole auto e scarsa di soldi?

Ma il team di Torino (e qui il merito si amplia) c'è riuscito ove quello di Mercedes aveva fatto cilecca. Nel frattempo, in Italia, John ha appoggiato Marchionne in una rivoluzione che dovrebbe essere esemplare per la nostra scena politica ed economica: non chiederemo più sussidi al governo, non ci interessa più la politica e la concertazione sindacale, vogliamo però essere liberi nei contratti di lavoro aziendali, basati sulla flessibilità e la produttività. E così Fiat è anche uscita da Confindustria di cui Gianni, il nonno di John, era stato presidente. Ora c'è l'ultimo cambiamento, che riguarda Fiat Auto. In Italia passa dalla specializzazione nelle vetture piccole e medie di serie a quella nelle grandi e di lusso. E il nuovo gruppo ha deciso di investirci parecchio. Ma senza il contratto di lavoro aziendale di Marchionne, tutto diventa più difficile. La sfida ora riguarda l'Italia.

Siamo capaci di innovare come John con Marchionne? Questa è la domanda alla società italiana.

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