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All'improvviso il Pd scopre che la Bindi è da rottamare

Dopo la figuraccia sui gay, sfogo della base sul web: "È antidemocratica". Lei minimizza, ma nel partito emergono vecchie ruggini con la presidente

All'improvviso il Pd scopre che la Bindi è da rottamare

Il giorno dopo Rosy Bindi dice che no, macché Pd spaccato sui gay, «si è trattato solo di 38 persone». A risponderle nessuno, ma solo perché, per dirla con un anonimo dirigente: «Sulla figuraccia che abbiamo fatto sui diritti civili mentre il Paese ha ben altre emergenze, possiamo solo calare un velo pietoso». E però la base valla a tenere. L'infuocata assemblea finita con la parte laica del Pd a strappare tessere accusando l'«antidemocratica» presidente di aver vietato il voto sulle unioni gay, ieri è stata oggetto di uno sfogo cumulativo sul web. Su twitter era un moltiplicarsi di fotomontaggi con Rosy nei panni della Madonna di Medjugorje, però con insinuanti commenti su una sua ipotetica omosessualità frustrata. Commenti a non finire. «È una rompic...» sentenzia Piero Benedetto, «l'agghiacciante Pd ostaggio della Bindi» lamenta Walter Todaro, «la Bindi è più bella che progressista» scrive Rocco di Filippo citando Berlusconi («è più bella che intelligente»), «l'abbiamo implorata ma il Pd è precluso alla partecipazione» dice Giulia Morini, 24enne consigliere comunale a Modena, «richiamate la Binetti» ironizza Paolo Fedeli.
I vertici provano a scrivere un bel silenzio, ma i musi lunghi parlano chiaro. Non è solo che una fetta del partito continua a domandarsi quale convivenza sia possibile con l'anima cattolica. È anche che oggi in molti si sono svegliati con in testa l'Apollo 13: «Houston, abbiamo un problema». E il problema è lei, Rosy. Non da ieri e non solo sulle unioni gay. Il fatto è che ogni volta che qualcuno, alleato o «compagno» di partito, la attacca, lo fa rivelando altre ruggini rispetto alla questione contingente. «È la presidente degli stronzi» urlò Marco Pannella ai microfoni di Un giorno da pecora nel giorno in cui la truppa dei Radicali non seguì il Pd sull'Aventino mentre in Aula si votava l'ultima fiducia al governo Berlusconi. La Bindi aveva appena detto che «gli stronzi sono stronzi», ma tanto astio del leader radicale aveva radici antiche. Risalenti per l'esattezza al 2008, quando la Bindi insistentemente tentò di convincere Veltroni che «candidare i Radicali è un errore: se dobbiamo andare da soli, non andiamo male accompagnati».

Di peggio accadde in Sicilia nell'ottobre scorso. La Bindi criticò i deputati regionali del Pd che scelsero di sostenere l'indagato Raffaele Lombardo, e si ritrovò venti lupare puntate contro. Impallinata per l'intera gestione del partito: «Scenda dal trono: noi siamo stati eletti con migliaia di voti, non nominati», tiè. E ancora: «In Sicilia siamo riusciti in quello che lei non è stata in grado di fare a Roma: mandare i berlusconiani all'opposizione». Di più: «Ci aspettiamo più sobrietà nei confronti di un gruppo dirigente che ha agito per far uscire il Pd dalla marginalità». Fino allo stesso governatore, che la tacciò di «impareggiabile disonestà intellettuale» dandole poi persino del «cane rabbioso».

Eh sì, perché c'è pure un problema di stile. Là dove la pasionaria spesso spinge la passione oltre il confine delle buone maniere. Un «livore indegno di un cattolico, da scomunica» stigmatizzò Alberto Tedesco, il senatore indagato di cui la Bindi pretendeva le dimissioni e che, anche questa volta, per risponderle tirò in ballo altri rancori: «Lei chiede le dimissioni a me? Ma le chieda al parlamentare più assenteista del mondo, Antonio Gaglione, che lei ha imposto in lista, costringendo il Pd a eleggerlo in Puglia».
È di questi ma anche di molti altri giorni invece il braccio di ferro con Matteo Renzi. Lei che lo liquida con un «perché dovrei polemizzare col nulla, con uno che non sa nemmeno fare il sindaco della sua città?». E lui, il sindaco fiorentino, a dire che con Rosy «il problema è il Pd». E cioè i vecchi che non lasciano spazio ai giovani. La Bindi, di finire rottamata non ne vuol sapere. E a Renzi che continua a far notare che «sarebbe l'ora si facesse da parte, visto che siede in Parlamento da 20 anni», replica così: «Sui tre mandati esiste una deroga, che il partito ha ritenuto di dovermi concedere».

Volere è potere, anzi, dovere.

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