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La beffa delle quote rosa Inutili e pure dannose

La beffa delle quote rosa Inutili e pure dannose

Avanzo una proposta di legge: si impongano quote minime di partecipazione ai consigli di amministrazione delle società quotate per persone di pelle scura, per i diversamente abili, per i seguaci di religioni diverse dalla cattolica. Almeno pareggiamo il conto con la legge Golfo-Mosca (dal nome dei due geni parlamentari che l'hanno proposta) approvata nel luglio 2011 ed entrata in vigore lo scorso 12 agosto, la quale prevede di riservare un quinto dei posti al genere meno rappresentato in occasione del primo rinnovo dei consigli di amministrazione e un terzo al secondo rinnovo.
Ciò che è inutile, è dannoso. La legge Golfo-Mosca rientra proprio in questa categoria di provvedimenti. Perché? Perché ad oggi non esiste alcuna evidenza scientifica conclusiva sulla maggiore efficacia dei consigli con una presenza femminile. Aggiungo: mi sorprenderei del contrario.
Tralascio di annoiarvi sulla copiosa letteratura scientifica disponibile e mi concentro su uno studio pubblicato nel mese di agosto nientepopodimeno che dalla banca Credit Suisse. Attraverso l'analisi di un campione di 2.360 società, i ricercatori giungono alla conclusione che le aziende con una o più donne in consiglio hanno ottenuto risultati migliori in termini di redditività, di minore indebitamento e di superiori valori di borsa. In particolare, la migliore performance comincia a manifestarsi a partire dal 2008, mentre prima della crisi non si evidenzia alcuna differenza significativa. Segno che la presenza delle donne aumenta anche le difese delle società quando le cose si mettono male. Bum!
Si tratta di un esempio di come la ricerca scientifica non vada fatta e di come, ancor più, le conclusioni cui si perviene siano del tutto prive di robuste gambe. Ve ne dico una, tanto per intenderci. Forse non tutti sanno che il numero medio dei consiglieri di amministrazioni in Europa è di circa 15 componenti (dati 2010). Il numero delle donne è invece in media pari a 1,7. Dati non estremamente dissimili caratterizzano altre regioni del globo. Ebbene, secondo Credit Suisse, se si pone a confronto la performance delle aziende con una/due donne in consiglio con quella di aziende che donne in consiglio non ne hanno, si osserva che le aziende women friendly ottengono risultati migliori. Perbacco! Cioè a dire che il 10 per cento del consiglio è in grado di fare una robusta differenza nei destini di una società. Se poi si considera che di rado le donne rivestono incarichi esecutivi, quelle con un ruolo di semplici consiglieri devono essere evidentemente tutte wonder woman o cat woman. E non ce ne siamo ancora accorti!
Ancora più risibili sono le motivazioni con cui vengono spiegati i successi economici indotti dalla presenza femminile. Nello studio ne vengono suggeriti sette, ma io ve ne riporto tre, sufficienti per capire di che tono è la musica. Un primo motivo è che la presenza femminile contribuisce ad aumentare gli sforzi di gruppo, effettuati dai maschietti presumo per non sfigurare agli occhi del «sesso debole» (innestando così di fatto un'altra manifestazione di becero machismo!). Una seconda ragione è che le donne si caratterizzano per una maggiore sensibilità verso le decisioni dei consumatori finali, essendo esse stesse i principali acquirenti dei prodotti di consumo, a causa delle (o grazie alle?) loro incombenze familiari. Mi chiedo: ma la presenza in consiglio non dovrebbe condurre fatalmente ad allontanare le donne, quantomeno in parte, dalla loro casetta visti i gravosi impegni consiliari? E poi, a cosa servono tutte quelle diavolerie quali i focus group, le indagini di mercato, le interviste ai consumatori e quant'altro? Temo che si annuncino tempi duri per gli esperti di marketing. Infine, le donne sembrano essere più avverse al rischio. Peccato che l'avversione al rischio non necessariamente sia ben vista dai legittimi proprietari delle aziende, gli azionisti. Se questi ultimi fossero così avversi al rischio nei loro investimenti, probabilmente non avrebbero investito in titoli azionari, ma in titoli di Stato. O, peggio, molti imprenditori non avrebbero cominciato le loro avventure imprenditoriali.
Cosa può accadere quando si costringono le aziende a cooptare un numero predefinito di donne? Almeno due conseguenze negative: 1) non necessariamente viene scelto il meglio.
Il timore fondato è che si faccia salire a bordo donne parenti o comunque vicine all'azionista di riferimento o professioniste di secondo livello. Con il risultato di perdere in indipendenza e in professionalità del consiglio stesso; 2) che le donne cooptate controvoglia dalla società possono incorrere in una reazione di emarginazione all'interno del consiglio, proprio perché frutto di imposizione esterna e non di libera scelta. C'è già una discreta evidenza in tal senso nei paesi del Nord Europa.
Più in generale, comunque, non se ne può più dell'agire politicamente corretto, di comportamenti equi e sostenibili (per la legge in questione importati dalla politicamente correttissima e noiosissima Norvegia).
Ma soprattutto non se ne può più di governi che interferiscono nelle libere scelte delle aziende private, imponendo loro la mano benevola del tutore che sa cosa è bene e cosa è male per le aziende.
Non so a voi, ma a me sfugge il motivo per cui lo Stato o l'Ue debba dirmi che per il bene della mia azienda io devo inserire in consiglio di amministrazione un certo numero di donne.
Attenzione: la signora Viviane Reding, commissaria europea alla giustizia, lo scorso marzo - ma è purtroppo tornata alla carica in questi giorni - ha ammonito l'Europa per non aver imposto i necessari provvedimenti nazionali che conducano a quello che, a suo intelligentissimo dire, è un significativo equilibrio: almeno un 40 per cento di presenza per il sesso femminile. Chissà perché poi 40 per cento.
Ma le donne non erano la maggioranza su questo insostenibile pianeta? E allora facciamo sessanta.

O anche più. Si accomodino signori, chi offre di più?
*Preside Facoltà di Economia Università Lum «Jean Monnet»

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