Cronache

Il branco non va in cella. Per lo stupro di gruppo 18 mesi di "volontariato"

Nel 2009, da minorenni, abusarono di una compagna di scuola: condannati solo a lavorare per 18 mesi in una casa di riposo o in ospedale

Vicenza - Ancora diciassettenni, in tre nel 2009 violentarono una coetanea. Al processo patteggiano: 18 mesi di volontariato.

Il prezzo da pagare per uno stupro di gruppo l'ha fissato il Tribunale dei minori di Vicenza, ratificando l'accordo stretto tra Procura e difensori degli imputati. Un anno e mezzo di lavori di pubblica utilità per saldare il debito con la giustizia. Forse assisteranno gli anziani di una casa riposo o i pazienti di qualche ospedale della zona. Se vorranno, potranno dare una mano in qualche comunità o accompagnare i disabili. Di sicuro, non faranno neppure un giorno di carcere i componenti del terzetto che una sera d'estate di cinque anni fa abusarono di una compagna di scuola. A casa di uno di loro erano saliti con una scusa dopo lo struscio su corso Palladio, scandito da una sfilza di drink tracannati per combattere la calura agostana. E lì, tra i fumi dell'alcool, nell'appartamento lasciato sguarnito dai genitori assenti s'era consumata la violenza. Al padre che ignaro era andata a riprenderla prima che scoccasse la mezzanotte la ragazzina non aveva avuto il coraggio di dire nulla. Poi, vinta la vergogna, l'amara confessione, le medicazioni in ospedale, la denuncia in questura. E le indagini, l'identificazione dei tre, la denuncia a piede libero con l'accusa di violenza sessuale di gruppo. Le testimonianze raccolte avevano trovato conferma davanti al magistrato, nell'incidente probatorio durante il quale la fanciulla, riavvolgendo il nastro dei ricordi, aveva raccontato tra le lacrime fin nei dettagli più crudi il susseguirsi degli eventi d'una serata da incubo. Ma per conoscere il finale della storia non è stato neppure necessario attendere la sentenza. Ci si è fermati prima, con un patteggiamento che consentirà al trio, qualora il periodo di affidamento in prova dovesse filar liscio, di sentir dichiarare estinta la pena e lasciarsi tutto alle spalle, come se nulla fosse mai successo. E come loro gli 8 adolescenti che nel 2007, a turno, stuprarono una quattordicenne in una pineta di Montalto di Castro: il pm aveva chiesto complessivamente 32 anni di reclusione, ma a luglio il Tribunale dei minori di Viterbo li ha mandati ai lavori socialmente utili, in nome della rieducazione che salva i carnefici e spedisce dritte all'inferno le vittime.

Così nel mondo che va alla rovescia sul banco degli imputati finiscono le donne: se lo stupro riguarda una fanciulla non più vergine «il trauma sarà da ritenersi più lieve» ed il maschio assalitore «avrà diritto ad una condanna più lieve», ha stabilito nel 2006 la Terza sezione della Cassazione. La stessa che un paio d'anni fa ha bissato: quando lo stupro è di gruppo, in attesa di giudizio è lecito adottare misure alternative alla carcerazione. E nell'ottobre del 2012 un'altra pronuncia da manuale: se più sono i violentatori «va riconosciuto uno sconto di pena a chi non abbia partecipato a indurre la vittima a soggiacere alle richieste sessuali del gruppo, ma si sia limitato a consumare l'atto».

Nessuna meraviglia, allora, se a dicembre la Suprema Corte ha cassato la condanna a 5 anni inflitta in Appello ad un sessantenne che aveva allacciato una relazione con una bimba di 11 anni, affidata alle sue cure di operatore dei servizi sociali del Comune di Catanzaro: processo da rifare perché, secondo gli ermellini, non s'era tenuto conto del fatto che i due «fossero innamorati e che ciò costituisse un'attenuante».
La chiamano giustizia, ma di giusto non ha niente.

Nemmeno il nome.

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