Caso Sallusti

Sallusti come Guareschi, un campione di coraggio davanti alla boria delle toghe

Sallusti è disposto a finire in carcere pur di mettere con le spalle al muro i giudici responsabili di una assurda ingiustizia

Sallusti come Guareschi, un campione di coraggio davanti alla boria delle toghe

Il tipo umano di Sallusti è unico. Ha la faccia da attore di un classico dell'horror anni Trenta, un Bela Lugosi in piena Transilvania. Però una piega della grinta vira sull'innocente, sul candido, sul Forrest Gump. Bisogna poi dire che il comportamento pubblico, specie nella vicenda della sentenza e del carcere, è da aristocratico libertino. Dirige un Giornale da sempre araldo del cinismo longanesiano, ideologia conservatrice e strapaese, ma con la condanna per omesso controllo su una diffamazione Sallusti ha messo in moto una reazione psicologica e civile, personale e collettiva, che ha un solo precedente in Giovannino Guareschi, scrittore geniale e intellettuale anticonformista: condannato per diffamazione di De Gasperi negli anni Cinquanta, l'inventore di Peppone e don Camillo rifiutò di interporre appello e filò in carcere.

Sallusti non ha scritto sulla sua bandiera il fatale motto arcitaliano «ho famiglia», non gli assomiglia il profilo basso e codardo che si attribuiva impudicamente e ironicamente un celebre direttore del Corriere: «Ah, avessi un giornale!», e sembra che nel paese in cui «ci conosciamo tutti», il luogo per eccellenza della cuginanza e del compromesso familista allargato, la sua parte sia quella di chi non ha e non desidera avere neanche la parvenza di una solidarietà castale o corporativa. I colleghi democratici lo odiano, e lui se ne gloria e compiace afferrandosi a una qualche certezza morale interiore di regola insospettabile in chi esercita la prostituzione a mezzo stampa (tutti noi, più o meno, e massimamente quelli che lo negano e si sentono vestali dell'opinione pubblica, sacerdotesse della società civile incorrotta).

Conosco poco l'uomo e il professionista, ma non avrei mai pensato che avrebbe tenuto duro fino a questo punto, con questa alterigia e incoscienza, con questa rara testardaggine. Lo ammiro, e mi dispiace che ammirazione finisca per suggerire incoraggiamento: infatti io sono della scuola di Gaetano Salvemini, se ti becchi noie giudiziarie per stupro della Madonnina sul Duomo di Milano, prima ripari all'estero e poi si discute. Ma devo dire che mi stordisce una battaglia di così forte tempra espiatoria, in cui l'istituzione più controversa e blandita del Paese, la magistratura, viene messa con le spalle al muro nell'intento di obbligarla a essere perfettamente e assurdamente rigorosa nella sua ingiustizia («voglio il carcere come tutti i povericristi»), e questo viene fatto con il sublime sprezzo del rischio di finire in gattabuia per un anno e due mesi o giù di lì (in carcere anche un giorno è lungo come un anno).

Io da italiano non posso che considerare unico un tipaccio che rivendica la propria non colpevolezza (il che può essere discusso dai mille azzeccagarbugli del teatrino italiano), aggiungendo che è pronto a pagare con la galera e con una surreale certezza della pena, anzi lo esige, se questo significhi mettere un ingombro morale sulla via dell'ingiustizia di compromesso, un'ingiustizia senza gravi conseguenze che è un insulto a chi quelle conseguenze, e gravissime, invece le subisce.

La destra italiana – a volerla dire tutta – pullula di personalità eticamente distratte, che a un garantismo giuridico teorico affiancano l'umanissima voglia di sottrarsi agli affanni delle corti e delle inchieste, magari facinorose, in un modo o nell'altro; e forse anche questa generale distrazione etica ha fatto sì che in quasi vent'anni si sia combinato tanto poco in fatto di riforma delle carriere e dei codici e dell'amministrazione del diritto. Ora, il direttore del Giornale è un campione di questo mondo, ma lo rappresenta con una misura di inaudita e adamantina purezza morale, fa la lezione ai gendarmi che lo vogliono libero dopo averlo condannato alla prigione, li stuzzica, li provoca, li esorta e supplica a tradurlo in catene, sapendo che certo questo colpirà la loro boria, i loro automatismi burocratici, i loro vizi faziosi, ma alla fine un anno e due mesi a San Vittore non si augurano al peggiore dei nemici, figuriamoci a sé stessi.

Qualche volta penso che Sallusti voglia espiare una pena simbolica per conto di un intero tempo politico e civile, quello del berlusconismo nei suoi aspetti più selvaggi, e che mettere in gioco la propria libertà possa risultare per un hombre vertical come lui dimostra di essere il modo di riscattare personalmente e collettivamente una reputazione ormai decisamente dubbia, opaca, e sfilacciata sotto il profilo della dignità e coesione temperamentale. Ma noi che abbiamo famiglia, e con questo intendo non solo un certo mondo ma l'insieme un po' fetido della professione in cui sguazzo da decenni (giornalismo «de sinistra» compreso), avremo la nostra bella convenienza, il nostro inconfessabile vantaggio, se quel pazzo lucido otterrà la disgrazia della galera.

E questo dà da pensare.

Commenti