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La Cgil pretende l'articolo 18 ma non per i suoi dipendenti

A parole difende il posto fisso, intanto lascia a casa i dipendenti anche senza giusta causa. Una legge del 1990 permette che la legge non venga applicata

La Cgil pretende l'articolo 18 ma non per i suoi dipendenti

Roma - Da qualche tempo si sono messi tutti insieme e hanno aperto un sito internet, licenziatidallacgil.blogspot.it. Non è soltanto uno sfogo. La bacheca raccoglie atti giudiziari, con ricorsi e addirittura una sentenza di condanna della Cgil: la prima storica decisione di un tribunale, si sottolinea, contro il sindacato guidato da Susanna Camusso. L’ultimo documento pubblicato è il ricorso di una ex dipendente della Cgil di Cosenza, al servizio per anni a tempo pieno nonostante un contratto da part time da 670 euro (come si legge nell’atto di citazione) e poi licenziata dal sindacato.
E’ proprio su questo blog che, dalla voce degli epurati, si sottolinea il paradosso: l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori «come tutti sanno non si applica ai lavoratori della Cgil», ricorda il sindacalista che ha vinto la sua causa a Ragusa, Tommaso Fonte. È proprio così: la Cgil che minaccia lo sciopero generale contro le modifiche all’articolo 18 in realtà non è tenuta per legge a reintegrare i suoi lavoratori licenziati senza giusta causa, come invece sono obbligate a fare tutte le aziende italiane con più di 15 dipendenti. I lavoratori sindacali non sono infatti coperti dall’articolo 18. La legge che lo stabilisce è la numero 108 del 1990. Ecco cosa dice l’articolo 4: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori «non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto». Il nodo è sempre qui: quell’espressione «senza fini di lucro» dietro alla quale sono tutelate associazioni organizzazioni che tutto sono fuorché opere pie, sindacati compresi, che vantano sedi in tutto il mondo dove si svolgono consulenze non gratuite, oltre a godere di imponenti patrimoni immobiliari.
Ma quello che sconcerta è la contraddizione: i sindacati non hanno l’obbligo di reintegro per il lavoratore licenziato senza giusta causa, tantomeno se il licenziamento è avvenuto per motivi discriminatori. La Cgil sembrerebbe quindi combattere una guerra, quella sulla sacralità dell’articolo 18, che in fondo non la riguarda per niente.
Il caso di Simona Micieli è il più recente registrato dal blog dei licenziati della Cgil: nella sua denuncia, pubblicata sul sito due giorni fa, viene sottolineato come, prima di licenziamento dopo mesi di malattia, la Cgil le aveva proposto «il versamento della somma di 70mila euro in cambio delle dimissioni e del silenzio».
Il 22 marzo il comitato dei licenziati Cgil ha invece scritto una dura condanna contro il sindacato, proprio legata alla recente battaglia sull’articolo 18: «Condividiamo pienamente e fortemente la posizione della Cgil sulla riforma del mercato del lavoro, precisamente su due punti: licenziamenti discriminatori, licenziamenti disciplinari - si legge nella lettera - Nel contempo chiediamo alla Cgil di spiegarci perché questa posizione non vale per i suoi dipendenti e i suoi licenziati. Questo è il motivo per cui non possiamo, nonostante il momento delicato, restarcene in silenzio. Non è giusto predicare bene, chiedere consensi e razzolare male».
La lista dei licenziati che hanno presentato ricorso contro il sindacato è lunga. C’è Anna Maria Dalò di Andria, licenziata dal patronato mentre era seriamente malata, poi reintegrata dopo che il suo caso arrivò al congresso nazionale di Rimini, ma poi costretta a dimettersi perchè non voleva lavorare nella stessa sede dove si era sentita umiliata, ora in causa su Tfr e pensione con la Cgil. O c’è la storia di Romina Licciardi, licenziata dalla Cgil di Ragusa dopo dodici anni di servizio, di cui, due, denuncia, in nero, dal 1998 al 2000 e gli altri con contratto part time anche se lavorava a tempo pieno. Ha preso coraggio anche Giovanni Sapienza da Catania, e ha presentato ricorso contro la Cgil, dalla quale è stato lienziato «in tronco», scrive, dopo 18 anni di lavoro senza contributi previdenziali.


Uno dei promotori del comitato dei licenziati è appunto Tommaso Fonte, che era arrivato a diventare segretario della sede diRragusa, «epurato», come lui stesso scrive, «dopo 27 anni di militanza», denunciato dalla stessa Cgil per 100mila euro di danni per le sue dichiarazioni ritenute diffamatorie contro il sindacato e poi risultato vincitore della causa, che ha condannato la Cgil a pagargli 8200 euro di spese processuali.

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