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La crisi fa sparecchiare i ristoranti: in un anno chiusi novemila locali

RomaÈ la Spoon River della ristorazione italiana. Novemila croci in un anno, una sfilza di chef che oggi cucinano sulla collina, per dirla alla Edgar Lee Masters, anche se sono vivi e vegeti. Lo dice Confcommercio, che in un recente rapporto registra nel 2011 un saldo negativo di 8857 imprese nel campo della ristorazione: hanno aperto 15.772 nuove insegne, hanno chiuso i battenti in 24.629. Bilancio sempre più in rosso di anno in anno: nel 2010 il saldo negativo era stato di 5474 tra ristoranti, trattorie e pizzerie, nel 2009 di 4057 locali.
Un fenomeno preoccupante, che risente naturalmente della grave crisi economica, dei cambiamenti nello stile di vita degli italiani, ma anche dell'incapacità di rinnovarsi. E che ha una valenza non solo economica ma anche sociale. Un ristorante in meno spesso vuole dire un quartiere più povero, più triste. Anche perché quasi sempre i ristoranti che chiudono i battenti sono rimpiazzati, se va bene, da una trattoria cinese o dall'ennesimo store di una griffe, se va male dal nulla: serrande abbassate e via.
«È un dato molto brutto e non può attribuirsi a un fisiologico processo di selezione, si tratta di una vera e propria patologia che distrugge anche il tessuto connettivo delle relazioni sociali, andando a incidere sui momenti di convivialità», spiega il direttore dell'Ufficio studi della Confcommercio, Mariano Bella. Che non vede per l'anno in corso nessun segnale di un'inversione di marcia: «Essendo un anno di crisi mi aspetterei dati non migliori sui ristoranti», dice Bella. Peraltro è tutto il settore che raggruppa le attività del turismo, del tempo libero e delle comunicazioni ad aver pagato pegno lo scorso anno. Ma due terzi del saldo negativo complessivo (-13mila imprese) è ascrivibile alla ristorazione.
La strage riguarda tutta Italia e tutte le tipologie di locale. Fa più male, naturalmente, quando a tirare giù la serranda è un'insegna storica. Come Fini a Modena. Come Gemma a Capri. Come il Tre Archi di Este. O quando chiude un locale gourmet, a cui nemmeno le recensioni positive delle guide salvano la pelle: e le stelle stanno a guardare. Negli ultimi anni hanno lasciato tra gli altri il Gambero Rosso di San Vincenzo (Li) del grande Fulvio Pierangelini, l'Altro Mastai a Roma nel quale stava mettendosi in evidenza il giovane talento di Fabio Baldassarre (poi emigrato a Milano), il 4 Mori di Varese, la Locanda del Palazzo di Barile (Pz), La Via romana di Bordighera (Im). È vero, ogni storia è diversa tra capricci degli chef-star, cambi di location, contorte vicende familiari. Ma la crisi certo non aiuta. Al punto che nelle guide dei ristoranti c'è ormai la sindrome del ristorante chiuso, quello che va a gambe all'aria tra la chiusura del volume e la sua pubblicazione, facendo fare brutta figura ai curatori. Accade sempre più spesso e squalifica tutto il settore.
Sì, va bene. Ma che fare per sopravvivere? «Noi ristoratori abbiamo un difetto: sappiamo fare solo quello», dice Alessandro Pipero, noto sommelier e ristoratore romano che un paio di anni fa ha chiuso un locale gourmet ad Albano Laziale e oggi è rinato con Pipero al Rex, in un hotel romano. «La crisi c'è, ad Albano io tre giorni a settimana facevo zero coperti. Ma mi sono reinventato nella capitale tenendomi al passo con i tempi, puntando sull'originalità e sulla convinzione che al ristorante non si va più solo per mangiare ma per avere rapporti umani. E poi c'è Tripadvisor». Ma se molti suoi colleghi lo odiano? «Anch'io lo odiavo, ma ora mi fa lavorare». Un motore di ricerca ci salverà?

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