Cronache

La verità sul massacro

Nel libro di Chiocci e Di Meo lo sfogo del capo del "famigerato" VII nucleo, Canterini: "Noi aiutammo quei ragazzi"

La verità sul massacro

La scena più terribile si svolge su, al primo piano. «Feci qualche passo e trovai uno dei miei, inginocchiato e senza casco, che soccorreva come poteva una ragazza rannicchiata su se stessa». Sono le 22 del 22 luglio 2001 e il comandante del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini è appena entrato con i suoi poliziotti nella scuola Diaz. Ordini superiori, ordini che non si possono discutere, gli hanno spiegato che lì, fra le mura di quella scuola, potrebbero esserci, nientemeno, dei terroristi. Ipotesi bislacca e incomprensibile, come è stata irrituale e strana quella convocazione a sera inoltrata, alla fine di due giorni di fuoco, con Genova devastata dai Black bloc e Canterini e i suoi agenti impegnati in una partita difficilissima e rischiosa. Pareva finita, finalmente, con un bilancio pesante e la tragedia di Carlo Giuliani, morto mentre lanciava un estintore contro un defender dei carabinieri. Pareva che il peggio fosse passato e invece, alle dieci della sera, ecco la chiamata e la corsa su per le scale della Diaz. Canterini s'imbatte in quella ragazza: «Aveva i capelli rasati, le trecce sulla nuca, il cranio fracassato da cui fuoriusciva sangue a fiotti e materia cerebrale. Il poliziotto che aveva dato lo stop alla mattanza e che vegliava sulla moribonda aspettando l'ambulanza era Fournier»: Michelangelo Fournier, a sua volta comandante del Nucleo sperimentale costituito apposta in vista del G8. Amici da una vita, Canterini e Fournier, tutti e due finiti, loro malgrado, nella trappola infernale della Diaz. «Rimasi ipnotizzato a quella scena straziante, che mi faceva pensare al Cristo sofferente fra le braccia della Vergine. Sembrava la versione moderna della Pietà di Michelangelo. Era la pietà di Michelangelo Fournier». Passano secondi drammatici. «In quel caos epocale - prosegue Canterini - mi ritrovai, di fatto, a coordinare i soccorsi». Altro che manganellate. Quelle le avevano date altri poliziotti, rimasti nell'ombra, i responsabili di un pestaggio vergognoso, una delle pagine nere di un G8 zeppo di episodi tristissimi.
Ma la giustizia ha pescato la faccia di Canterini e con lui quelle di altri superpoliziotti. Così, undici anni dopo, nelle scorse settimane la Cassazione ha reso definitive le condanne che spezzano la carriera di alcuni dei più noti investigatori italiani. Tutti buttati fuori a razzo dal corpo, anche se vantavano curricula spettacolari, come Gilberto Caldarozzi che aveva appena dato un nome al bombarolo assassino di Brindisi. Come Canterini, che, come altri, aveva firmato una relazione di servizio sulla Diaz, due righe scritte dopo aver trascorso 48 ore senza mangiare e bere, si è ritrovato sulle spalle una pena di cinque anni per falso. E la patente di macellaio in divisa.
Così, ora prova a raccontare la sua verità e consegna il suo teso, amarissimo sfogo alla penna di due giornalisti. Gian Marco Chiocci, veterano della cronaca giudiziaria e autore di numerosi scoop per il Giornale, e Simone Di Meo: Diaz è il titolo secco del libro in uscita da «Imprimatur» del gruppo Aliberti. Un testo che fotografa i momenti più difficili di quelle interminabili giornate e si concentra poi sulla notte della Diaz, ricostruendola e costruendo parallelamente un doppio atto d'accusa. Contro chi, ai piani alti della polizia, mandò allo sbaraglio Canterini e tanti altri poliziotti, abbandonandoli poi al loro destino; e contro la magistratura che ha condannato le persone sbagliate, scegliendole con comodo fra i quattrocento poliziotti che diedero forma all'operazione Diaz, e che ha diviso in modo manicheo i buoni dai cattivi. Trasformando chiunque partecipò all'assalto alla caserma in un picchiatore e chiunque era all'interno in un agnellino.
E invece anche questa versione non sta in piedi. Molti ragazzi, ammassati nella scuola di Bolzaneto, furono selvaggiamente percossi, ma non tutti. Nel corso dell'irruzione uno degli agenti, Massimo Nucera, per tutti Flanella, rischiò di morire. Flanella, per capirci, «la mattina prima s'era fracassato il ginocchio con quel sampietrino tirato da distanza ravvicinata da un cane rabbioso ed era andato avanti ad antidolorifici e fasciature». Quella sera, per spirito di servizio, aveva voluto esserci, stringendo i denti, senza sapere a che cosa sarebbe andato incontro. E per poco non ci lasciò le penne: accoltellato al buio e salvato solo e soltanto dal corpetto. «Quella sagoma scura approfittò dell'assenza di luce... la colluttazione fu rapida e violenta. Il primo fendente alla gola di Nucera andò a vuoto, il secondo centrò il torace che non vene trafitto solo perché fra la punta del coltello e il petto di Massimo la protezione aveva fatto il suo dovere». Lì per lì Nucera non si accorse della stilettata. Quando gli fecero notare che la divisa era tagliata si fermò a pensare, anche perché fra le mani si rigirava un coltello raccolto nell'aula dell'agguato. Ma poiché col tempo si faceva strada l'idea che la polizia ne avesse fatte (e inventate) di tutte, si iniziò a mettere in dubbio anche a sua versione, come se fosse stata concordata a tavolino pure quella. In appello, dopo tanti anni, i giudici si sono convinti che il Flanella avesse romanzato la sua storia e hanno condannato pure lui. Con una sentenza confermata dalla Cassazione. «E così, a soli quarant'anni, nel pieno della carriera, dopo ave stoicamente resistito alle sassate in piazza Tommaseo, dopo aver rischiato di morire alla Diaz, il Flanella s'è ritrovato lapidato dalla giustizia italiana, sospeso dalla polizia, senza più lavoro». L'indomani, l'uomo, amareggiato, ha rilasciato ai giornali una dichiarazione che è il compendio di questa storia: «Hanno preso la mia vita e l'hanno gettata nel secchio».

Delle centinaia di Black bloc responsabili del disastro e di 60 milioni di euro di danni, solo dieci, dieci di numero, sono stati condannati.

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