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Federer, la lunga marcia dello svizzero globale

Il boato della fine spiega il principio: Roger Federer è uno straniero a casa. Tutti in piedi. Vince lui e non conti le bandiere: svizzera, certo. Poi britannica, italiana, francese, americana, canadese. C'è n'è anche una delle isole Fiji. È l'unico atleta contemporaneo per cui tutto il mondo oggi faccia il tifo. Come se non avesse nazionalità, come se fosse figlio (...)

(...) dello sport universale. Vince una semifinale olimpica nel giardino della sua villa. Perché Wimbledon è casa: sette vittorie, l'ultima un mese fa. Disse allora: mi fermo a Londra perché qui voglio vincere l'Olimpiade. Per la Svizzera, per il tennis. È almeno argento, per l'oro si decide domani. Però la partita di Federer stavolta non è la finale. È questa: entra nella storia come il match più lungo di quelli giocati nel due su tre. Finisce 19 a 17 per lo svizzero globale. Finisce con quel boato che mette in un angolo il povero argentino Del Potro, uno che gioca benissimo, che si diverte, che si sente a suo agio, che non ha paura. Sbaglia due colpi e perde. Perché con Federer succede così. Non vinci anche quando giochi al meglio. Non qui, su quest'erba sacra per il tennis e che ha trasformato Roger in un dio pagano.
Sventola anche una bandiera argentina, adesso. Omaggia lo sconfitto, saluta il vincitore. Perché se perdi con Federer è come non aver perso con un rivale. È la forza di un giocatore che non ha confini. Succede soltanto a quelli che identificano uno sport: Roger è il tennis e chiunque ami il tennis non può fare il tifo contro di lui. Capito? Ecco perché è l'Olimpiade. Un simbolo involontario: Bolt ha tanti con lui e però per forza qualcuno contro. Phelps anche: nelle piscine ci sono gli americani che stanno con gli americani, i britannici con i britannici, gli australiani con gli australiani. Per quanto Michael sia oltre, c'è sempre qualcuno che vorrebbe vederlo sconfitto. Con Federer no. Anche quando gioca con Andy Murray che qui rappresenta la Gran Bretagna intera, c'è mezzo centrale di Wimbledon che sta con lui. E l'altra metà non lo fa solo per dovere. Perché in fondo, dentro, anche loro lo amano.
Come fai a non invaghirti di uno così? Il pubblico lo adora perché non picchia. Accarezza. Non c'è bisogno di forza quando c'è precisione, non c'è bisogno di velocità se c'è talento, non c'è bisogno di volgarità se si è signori. Lui non esaurisce mai le richieste all'arbitro di vedere il replay istantaneo dei punti contestati. Lo usa poche volte, per il resto si fida. Contempla l'errore degli altri perché non tollera il suo. Pensa: se sto concentrato non sbaglio mai. Poi gioca, sempre: servizio, volée, dritto, rovescio. Palla corta, palla tagliata. C'è il campionario intero del tennis nella sua sacca. Accompagna la pallina in qualunque modo. È la differenza con gli altri. È lo stacco tra quel popolo di picchiatori che hanno puntato tutto solo sulla forza e quelli che ci hanno messo la classe. Wimbledon è casa perché preferisce i raffinati ai rozzi. Il mondo lo porta a spasso come se fosse un amico di tutti perché qui lo sport è una cosa seria. Allora se qualcuno chiede: ma come dovrebbe essere il tennis? «Guarda Roger giocare e sai tutto quello che devi sapere». Parlano dello stile, dell'eleganza, dell'orgoglio del rovescio a una mano, così bello e così raro. Federer è il passato aggiornato al presente, senza nostalgia: classe, silenzio, educazione, intelligenza. È un tocco già visto, il soffio di una palla che sfiora le corde e si poggia sull'erba. Non ci sono novità: c'è la perfezione. Borg divinizzò il top spin ed entrò nella leggenda. Roger no. Fa semplicemente al meglio quello che altri hanno già creato. E vince.
Questa è l'altra differenza: un campione non cede, non molla, vede il traguardo e lo vuole. Per primo. Può accettare la sconfitta, ma non può piacergli. Del Potro è stato a un millimetro dal successo. Federer ha abbassato il passaggio a livello: no amico, qui non si passa. Non si accompagna la vittoria di un altro, anche quando hai deciso che sei nella fase discendente. Lui dice di intravedere la fine, ma di non volerci pensare. Si vince, ancora. Si vince tutto quello che si può. Wimbledon è la casa che lo protegge: stai qui e andrà tutto bene. Argento sicuro, oro ancora no. C'è un'altra partita. Lui ha vinto già alle Olimpiadi, ma nel doppio. E non è la stessa cosa. La Svizzera anche ha vinto a tennis: Marc Rosset si prese il primo torneo tennistico della storia, nel 1992 a Barcellona. Non ci sono record, qui. Né per se stesso, né per il suo Paese. C'è la voglia di vincere. Lo spirito olimpico vero è questo. Partecipare? Non se ne parla. Ha lasciato che la bandiera della Svizzera la portasse il suo compagno di doppio. Ci tiene, ma per lui è diverso. Il suo mondo non si chiude in un vessillo, anche se ama il tuo Paese, anche se sente l'orgoglio di una patria.

Federer è soltanto oltre.

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