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Gallinari, il killer brigatista mai pentito

Gallinari, il killer brigatista mai pentito

Raccontava Adriana Faranda, una delle brigatiste più toste, che quando Aldo Moro, convinto di tornare a casa, lo salutò, lui, il «duro», pianse. Prospero Gallinari è stato uno dei terroristi più terroristi della storia italiana. Rigido, votato alla causa rivoluzionaria senza le sfumature e le complessità intellettuali di altri compagni di viaggio, custodiva nel suo zaino le certezze e la rabbia di una generazione, quella nata subito dopo la fine della guerra, che aspettava la presa del potere da parte del Pci e si sentiva tradita dalle svolte e dai compromessi togliattiani. Però, pure lui, quella mattina del 9 maggio 1978, nel garage di via Montalcini, dove Moro era stato tenuto prigioniero per quasi due mesi, sentì che forse si stava oltrepassando l'ultima misura, capì che non si doveva uccidere un prigioniero a sangue freddo, lottò contro i sentimenti che gli suggerivano di bloccare l'esecuzione. Forse. Quel che accadde in quei frangenti nel covo romano che le forze dell'ordine avevano cercato invano setacciando la città, non è mai stato chiarito fino in fondo. La versione ufficiale è che a sparare fu proprio lui, Prospero Gallinari. Ma nel '93 Mario Moretti, il capo dei capi, ha corretto questa storia spiegando che fu invece lui a eliminare Moro che se ne stava rannicchiato nella Renault rossa, protetto da una coperta che gli impediva di vedere cosa stava accadendo.
Col tempo, come sempre capita per questi drammi che segnano un'epoca - vedi la fucilazione del Duce - è spuntata pure una terza versione: Lanfranco Pace, l'ex leader di Potere Operaio, ha svelato che fu invece Germano Maccari, il brigatista meno noto, a firmare la morte di Moro. Maccari, che certo non aveva un profilo paragonabile a quello dei due compagni e neppure ad Anna Laura Braghetti, la donna della prigione, e in un certo senso era l'anello debole della catena, trovò invece la forza disumana e brutale per colpire Moro. Secondo questa interpretazione, Moretti era in preda a una crisi di panico e Gallinari piangeva. Lui imbracciò la famigerata mitraglietta Skorpion, fece fuoco e chiuse il più orrendo capitolo della storia repubblicana. Mistero.
Maccari è morto da molti anni portando con se i suoi segreti Ieri pure Gallinari è stato tradito dal cuore che già lo tormentava da tanto tempo. Ironia della sorte, si è sentito male nel garage della sua abitazione a Reggio Emilia e un passante si è accorto che qualcosa non quadrava vedendo la sua auto ferma sulla rampa. Ormai, era troppo tardi. In ospedale gli hanno solo espiantato le cornee: un gesto d'amore, finalmente, dopo tanta violenza.
Gallinari era nato a Reggio Emilia il 1 gennaio 1951 e già i dati anagrafici sono fondamentali per inquadrare il suo personaggio. A Reggio Emilia in quegli anni si vive a pane comunismo e si sviluppa il mito della rivoluzione tradita, coltivato dai duri dell'ala secchiana del Pci. I moti di Reggio, con l'uccisione di cinque operai il 7 luglio 1960, segano un altro strappo decisivo: «Ero di fianco ai lavoratori che caddero quel giorno - ha raccontato al Giornale Lauro Azzolini, che pure parteciperà al sequestro Moro e alla gambizzazione di Montanelli - e lì ruppi definitivamente con lo Stato». Nel 1969 quei ragazzi inquieti, cresciuti nel culto della lotta partigiana, cominciano a frequentare l'appartamento di via Emilia San Pietro da cui uscirà un'intera leva brigatista: i Franceschini, gli Ognibene, i Bonisoli, gli Azzolini. E naturalmente lui, il giovanissimo Gallinari. Le Br nascono in una trattoria di Pecorile, in provincia di Reggio Emilia, nell'agosto 1970. E si può sostenere che siano state battezzate alla confluenza di tre filoni: i ribelli dell'Appartamento di Reggio Emilia, gli studenti di Sociologia dell'Università di Trento, gli operai delle grandi fabbriche milanesi.
Gallinari è uno di quei soldati che restano sul campo, fra un arresto e un'evasione, per quasi tutto il periodo più importante, dall'inizio fino al 24 settembre 1979, quando viene ferito alla testa in un conflitto a fuoco e catturato definitivamente. Partecipa alle prime imprese del movimento brigatista, i sequestri Labate e Sossi, e dopo la fuga dal carcere di Treviso, nel 1977, è uno dei protagonisti del rapimento Moro. Fa parte del commando che annienta la scorta in via Fani, è uno dei quattro brigatisti che vivono con il prigioniero nel condominio borghese di via Montalcini. È lui che batte a macchina le lettere scritte dal leader democristiano, mentre è Moretti a condurre gli interrogatori. Il 9 maggio 1978 l'epilogo. E un anno dopo la sconfitta.
In carcere, Gallinari non si pente e non si dissocia. Si prende come un militare tutte le responsabilità, anche quelle non sue: afferma per esempio di aver premuto il grilletto nel momento fatale, ma Moretti e, sia pure indirettamente, Maccari lo smentiranno. Dettagli di una storia che comunque, nelle sue linee essenziali, è chiara e coerente. E non va letta con gli occhiali fuorvianti della dietrologia che scorge complotti e servizi segreti ovunque. Nel '96 sposa a Palmi proprio la Braghetti. Poi comincia a stare male. Gli applicano tre by-pass e lo Stato, che lui ha cercato di scardinare, gli concede la sospensione della pena. Oggi Renato Curcio, il fondatore delle Br, lo ricorda con una frase quasi borghese: «Era un amico».

Ma era anche il reduce di una stagione di sangue che ha lasciato sull'asfalto troppi morti.

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