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Ganasce d'acciaio in guanti di velluto: ecco la liturgia Pd

Prima dell'assemblea, si parlava di battaglia all’ultimo sangue. Ma è tutta farsa: i giochetti sono già stati fattti. Viaggio tra i delegati democratici

Ganasce d'acciaio in guanti di velluto: ecco la liturgia Pd

Ganasce d’acciaio in guanti di velluto. L’assemblea del Pd si riunisce per sei ore e decide di non decidere le regole delle primarie da sottoporre ai candidati di coalizione. «Che bella parola regole!», dice il segretario Bersani. «Non dobbiamo avere paura di questa parola». Ma è una parola, appunto. E qui di regole democratiche non ce n’è traccia, di paura invece sì.

Mi aggiro tra i delegati scrutati dal palco mentre sono in corso le votazioni - gli altri giornalisti sono trattenuti in un recinto - e, come sempre mi capita con il Pd, vengo assalito dall’inconfondibile odore di messa in scena che trasuda dalla platea. Poco prima, chi più chi meno, i delegati avevano sbeffeggiato, irriso, accusato, denunciato la sgarbata assenza dell’enfant terrible, quel Matteo Renzi che qui viene visto come Giamburrasca nel salotto della zia Bettina (uso eufemismi, assuefatto al cloroformio che si respira).

Renzi non c’è. Ma non si vedono a occhio nudo neppure i renziani. Saranno sottotraccia, o sotto la poltrona. Si parlava di scontro, duello, battaglia all’ultimo sangue. «Qui non si fanno né giochetti né trappole, non si fanno cavilli per coprire la mancanza di liniea politica, né è liturgia inutile perché le decisioni si prendono altrove. Oggi si fanno regole importanti, daremo regole di certezza a tutti», aveva detto la preside Bindi all’inizio. Uno dei più clamorosi lapsus freudiano della storia. Altroché: qui è tutto finto, tutta liturgia, tutta farsa, chè giochetti e trucchetti sono già stati fatti e saranno perfezionati poscia: quando il segretario - che riceve all’unanimità il mandato a fare le regole - avrà tempo e potrà lavorarci con calma.

Alessandra B. è una funzionaria dell’organizzazione, non una delegata e dunque non vota. Ma ha un visetto pulito e fresco che invoglia le confidenze. Ha trentadue anni e le illusioni della politica alle spalle. «Però ci credo», spiega. Ma non ti fanno impressione tutte queste votazioni all’unanimità?, le chiedo. Ride di gusto. Fatto è che i 612 delegati registrati (su 949), cioé quelli che si sono scomodati a venire da tutta Italia (niente paura, paga il partito, quindi noi contribuenti), sono stati eletti alle passate primarie del 2009. Esprimono, in percentuale, i voti ottenuti dai tre candidati della scorsa tornata: Bersani, Franceschini e Marino (nell’ordine d’arrivo). Qualcuno di essi, è vero, si può supporre, voterà alle primarie pure per Renzi. Ma qui sono come un blocco compatto, un monolite, l’espressione compiuta della piccola casta che si arrocca nel fortino davanti al nemico. «E grazie, che Renzi non c’è venuto - mi dice Alessandra -... Ha fatto benissimo, che ci veniva a fare? A farsi processare o lapidare? A fare uno contro tutti?».

Ma allora di che scrivono e parlano, mi chiedo, i colleghi delle agenzie e degli altri giornali? Colleghi superinformati, che conoscono tutto e tutti, che ricevono prelibatissime veline dal Botteghino del Pd... Saranno anch’essi personaggi della recita? Consapevoli o infinocchiati?

Giorgio C. è invece un delegato di Viterbo. Si gode una sigaretta e gli agi che l’appartenenza al gruppo dominante, quello bersaniano, gli consente. Parla franco, spedito, sicuro. Coetaneo di Renzi, spiega come e perché tutto sommato fosse giusto - scelta costretta, insomma - far partecipare anche Renzi a questa sfida, nonostante lo statuto parlasse chiaro: «alle primarie di coalizione, può partecipare soltanto il segretario del Pd».

L’assemblea, praticamente all’unanimità, ha appena votato la deroga al famigerato articolo 18 (’sto numero dev’essere sfigato) , così che Renzi possa contendere a Bersani il posto. Scusa Giorgio, ma chi ve lo ha fatto fare?, chiedo. «E figurati se non l’avessimo fatto!», mi fa come se fossi sceso dalla luna. «I tempi sono cambiati, la gente è incazzata, avrebbero detto che eravamo la solita casta chiusa! Ma te li immagini i giornali e le tv?». Ah, già giusto: quindi in fondo il fatto che sia sbucato Renzi vi ha fatto comodo. «In un certo senso sì, fa capire che il cambiamento c’è anche dentro di noi». Quindi, rispetto a tre anni fa, anche dentro il partito le percentuali delle componenti sono cambiate, o no? C’è almeno la novità dei renziani, no? «Presumo di sì», dice Giorgio. E allora che legittimazione ha quest’assemblea, che non rispecchia più le anime del partito? «Beh, più di questo, a Renzi, non si poteva certo concedere...».

Il senatore Enrico Morando, economista liberale a 24 carati, ce l’ha con Bersani per «essersi chiuso nel recinto dell’alleanza con Vendola». Invece, sostiene, noi avremmo dovuto tenerci le mani libere e aprirci tanto al dialogo con Vendola, quanto a espanderci verso il centro di Casini. Magari non era possibile, forbice troppo ampia o coperta troppo corta, faccio. «Ma non è questione di forbice! Bisognava dire a Vendola: se vuoi partecipare alle primarie di coalizione, firma l’impegno a seguire l’agenda Monti!». Strano concetto di democrazia: la linea politica di Vendola è proprio quella di contrastare il governo tecnico... «E allora che restasse a casa. L’Italia ora ha bisogno di un governo politico: un governo Bersani!». Per far che? «Le cose che fa Monti». Ah, già. Quella di arrivare presto e bene a una poltrona di governo non è l’unica ossessione di Morando, uno che sa vedere lungo. E un cultore del «io l’avevo detto!», «io l’avevo previsto!». Insomma, una Cassandra in grisaglia. Preventivando il corto circuito di quest’assemblea per le allodole, aveva perciò proposto, mesi fa, di fare un bel congresso, «sede naturale per dirimere la questione della leadership e della linea politica tra Bersani e Renzi. Altrimenti, lo statuto parlava chiaro: alle primarie di coalizione si può presentare solo il segretario in carica». Mi sono battuto come un leone, ma come al solito inascoltato, racconta. Ma intanto si sta votando proprio sulla deroga che consentirà a Renzi di provarci, e il suo braccio si unisce alla selva di mani per il sì. Ma come, Enrico, quoque tu? Non hai appena detto che non eri d’accordo a stravolgere lo statuto e che ci sarebbe voluto un congresso? Mica il tuo voto a favore è fondamentale... «In questo momento è chiaro che oramai bisogna votare sì». Ci dev’essere qualcuno che, come nelle trasmissioni di varietà, ha un cartello che indica quando e come votare o battere le mani o fischiare.

Torno ad Alessandra, e ai suoi candori contagiosi. Sto per dirle che i tempi del «centralismo democratico» sembrano mai finiti (ma almeno nel Pci aveva un senso essere sempre d’accordo), quando lei mi previene. «Vedi? Votano tutti sì, votano sempre tutti uguale». Sorrido della sua perspicacia. Si vogliono troppo bene?, azzardo candidamente. «Macché, hanno paura che i capi li vedano, e poi non li candidino più». In effetti, per ogni settore ci sono i «contatori» di braccia alzate che girano per le file.

Anche i delegati si guardano l’un con l’altro, lungo le file, per controllarsi. Ma, sopratutto, dal banco della presidenza il Grande Fratello pidino guarda, osserva, giudica. Sfuggo prima che sia troppo tardi, ma di sicuro mi hanno individuato. E inscritto nel registro.

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