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Assolse Vendola, la giudice "amica" ora finisce indagata

Inchiesta sul gip De Felice, per i pm vicina al governatore: tutta colpa di un fallimento

Nichi Vendola in un momento della conferenza stampa a Roma
Nichi Vendola in un momento della conferenza stampa a Roma

Per venire a capo del procedimento che vede indagato a Lecce il giudice barese amico della sorella di Nichi Vendola che ha assolto Nichi Vendola per la vicenda del primario «raccomandato», occorre partire da un sarto sfortunato. E da un fallimento confezionato su misura. Il poveretto sarebbe stato ridotto sul lastrico da una «manovra» che lo avrebbe costretto a rinunciare alla sua attività e che rischia di portargli via anche la casa, ipotecata per pagare un debito che, giura lui, tale non era. Un fallimento datato 1989 per il quale, oggi sono indagati, sulla base della sua denuncia e di alcune sue registrazioni azionate di nascosto in tribunale, magistrati, avvocati, ufficiali giudiziari di Bari.

Nei guai c'è, per l'appunto, anche Susanna De Felice, il gip che ha ridato il sorriso al governatore pugliese assolvendolo dall'accusa di abuso d'ufficio per la riapertura dei termini di un concorso all'ospedale di Bari. La De Felice era finita nel mirino dei pm titolari del fascicolo sul leader di Sel, Bretone e Digeronimo, che avevano sollevato l'inopportunità per il giudice di occuparsi del procedimento in quanto «amica» della sorella del Narratore del Salento. Avrebbe dovuto astenersi, sostengono i due magistrati d'accusa, aggiungendo che l'annunciato ritiro di Vendola in caso di condanna avrebbe per di più «costituito una indebita pressione su un giudice che avrebbe potuto determinare l'uscita dalla scena politica del fratello della sua amica».

Il gip De Felice si ritrova indagata insieme a un bel po' di colleghi per le modalità con le quali si è arrivati al fallimento di Giuseppe Marinelli. Ai carabinieri l'uomo ha raccontato di essere stato dichiarato fallito dal giudice delegato Aldo Napoleone «senza verificare la sussistenza delle istanze» provenienti da due ditte, la Suarpi e la Giole. All'origine del fallimento ci sarebbe un debito, contestato all'ex artigiano, di circa 90 milioni di lire di merce nei confronti della Suarpi per tessuti poi rivelatisi scadenti e inutilizzabili. Malgrado gli accordi raggiunti tra debitore e creditore, con tanto di rateizzazione e ritiro dell'istanza di fallimento, la procedura concorsuale sarebbe comunque andata avanti, costringendo il sarto a ipotecare la casa di famiglia per rientrare in possesso degli assegni e delle cambiali dati in garanzia. Fotocopie di questi titoli, a suo dire, sarebbero stati comunque messi all'incasso dalla ditta. Stritolato dai debiti e con l'opposizione al fallimento rigettata dallo stesso giudice delegato che l'aveva decretata, Marinelli si sarebbe deciso a rivolgersi alla giustizia. L'indagine, come altre in passato, ha avuto però vita breve. Il pm ha chiesto e ottenuto dal gip De Felice l'archiviazione nella quale, ravvisa ancora Marinelli, il giudice ha espresso giudizi pesantissimi sul sarto e sulla sua famiglia, ipotizzando «comportamenti delittuosi» del denunciante, rifiutando la perizia grafologica, e basando le sue motivazioni sulle dichiarazioni dei due curatori, uno dei quali, già indagato per alcuni fallimenti pilotati. Con la gip di Vendola, nei guai anche il giudice delegato, gli avvocati delle aziende che hanno trattato il fascicolo, gli ufficiali giudiziari. Stavolta qualcuno, forse, ha sbagliato le misure.

(ha collaborato Simone Di Meo)

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