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Giustizia, sì al progetto del Colle per metter fine a 20 anni di lotta

Per ripristinare l'equilibrio costituzionale, il Parlamento deve dar seguito alle proposte di riforma elaborate dai saggi. Sono un ottimo punto di partenza per la pacificazione

Giustizia, sì al progetto del Colle per metter fine a 20 anni di lotta

Ex malo bonum. Il presidente Berlusconi non avrebbe potuto indicare meglio la bussola per queste ore così concitate. Una lezione di equilibrio e speranza. Soprattutto di fronte all'arido e disperato cinismo dei tanti talebani assetati di sangue che esultano per la condanna.
L'evocazione della massima di Sant'Agostino nel suo dolente messaggio televisivo, del quale solo la cecità ottusa dei professionisti del giustizialismo può ignorare l'umanità e l'autenticità, non ha però solo una valenza personale. Essa indica un preciso percorso politico e istituzionale, la cui occasione è la vicenda giudiziaria del Presidente Berlusconi, ma il cui punto di caduta è una diagnosi (e soprattutto una terapia) della questione giustizia in Italia.
Solo la certosina acribia dei radicali ha sinora impedito che i tanti casi di mala giustizia venissero risucchiati dall'oblio, come nel caso di quel cittadino italiano intervistato un paio di sere fa a Radio radicale, accusato di reati infamanti a sfondo sessuale, e prosciolto solo in appello dopo 16 mesi di carcerazione preventiva che nessuno mai gli risarcirà.
La questione giustizia esiste in Italia a prescindere da Berlusconi. Ma l'accanimento ventennale nei suoi confronti è la punta di un iceberg che tutti conoscono, anche quando voltano la faccia dall'altra parte.
Per questo la sua battaglia ha un significato politico ben più importante del fatto che egli guida un partito sostenuto da milioni di persone. Per questo la questione della giustizia rappresenta la pietra d'inciampo di ogni tentativo di pacificazione nazionale e di ogni rinascita del paese.
Il programma iniziale di questa maggioranza prevedeva una riforma delle istituzioni che rafforzasse il potere politico, per poi procedere con una rinnovata autorevolezza alla riforma della giustizia. Forse è stato un errore separare il percorso delle riforme istituzionali dalla riforma della giustizia: oggi la connessione tra i due ambiti è tornata infatti prepotentemente ad affermarsi.
Ma nulla vieta che attraverso un binario parallelo si possa intervenire. La questione giustizia ha infatti un significato di sistema perché investe direttamente le due direttrici sulle quali si fonda l'organizzazione dello Stato: il rapporto tra autorità e libertà e il rapporto tra i poteri che quella autorità legittima incarnano.
Queste due direttrici danno l'impronta della forma di Stato, da esse dipende la qualificazione in termini autoritari o liberali, democratici o autoritari, equilibrati o squilibrati. In Italia lo squilibrio si è andato progressivamente affermando, ma ha avuto certamente il suo punto di rottura con l'abrogazione della norma costituzionale sull'autorizzazione a procedere nel 1993.
Mi fanno sorridere le tante vestali della Costituzione più bella del mondo, quelli che si stracciano le vesti ad ogni proposta di modifica della Carta, venerata come sacra reliquia. Non ho mai sentito nessuno di loro scandalizzarsi per la modifica dell'immunità. Sembra quasi che in tutta questa perfezione costituente l'articolo 68 fosse l'unico neo, l'unico ostacolo al dispiegamento paradisiaco di tutta quella perfezione.
Il discorso invece è molto serio. A torto o a ragione quella scelta fu fatta. All'inizio degli anni '90 le forze politiche stesse decisero di modificare profondamente l'equilibrio costituzionale, fondato sulla previsione di particolari garanzie e immunità per gli esponenti del potere politico.
Dopo la modifica della disciplina dei procedimenti per i reati commessi dai membri del governo nell'esercizio delle funzioni (prima sottoposti alla giurisdizione speciale della Corte costituzionale in composizione integrata), si decise, com'è noto di abrogare l'istituto dell'autorizzazione a procedere per i parlamentari (articolo 68 della Costituzione).
Non si tratta qui di giudicare se quella sia stata in sé una scelta buona o cattiva, si tratti di osservarne gli effetti di sistema. L'abrogazione dell'autorizzazione a procedere sancì infatti la fine di un rapporto tra politica e magistratura strutturato intorno all'insegna della separazione netta delle sfere di azione. La politica ai politici, la magistratura ai giudici. Non a caso il costituente previde anche quella norma, sempre dimenticata, ma tuttora vigente (articolo 98 della Costituzione), secondo cui «si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati». Se pensiamo che da noi i magistrati i partiti addirittura li fondano!
L'idea della separazione netta si fondava sul timore che altrimenti si sarebbero determinate sovrapposizioni, interferenze e corto-circuiti. Purtroppo la storia ci ha insegnato che quei timori erano assolutamente fondati. Eliminato il tassello, l'intero ingranaggio è impazzito.
Cos'è mancato per evitare la degenerazione? È mancato che alla parte «distruttiva» (abrogativa) se ne affiancasse una «ri-costruttiva», che cioè al posto della rigida separazione ormai abbandonata, si introducessero dei meccanismi di maggior coordinamento tra le sfere di potere. È mancata la creazione di più forti meccanismi di garanzia «interna» al circuito giudiziario, a cominciare da una più netta separazione tra l'attività requirente e l'attività giudicante, da meccanismi disciplinari più imparziali, da una maggiore garanzia di responsabilità dei giudici
Insomma, l'abolizione dell'autorizzazione a procedere eliminò il filtro costituito dal fumus persecutionis. Non fu considerato però che il suo posto potesse venire occupato da un non meno preoccupante fumus ambitionis, di quei magistrati che vanno alla ricerca di protagonismo e sensazionalismo o si sentono i cavalieri della giustizia
E così, alla fine, quella membrana impermeabile tra politica e giustizia, eretta dai costituenti, è diventata una membrana «semipermeabile», che funziona solo in una direzione. Mentre l'ordinamento giudiziario è un tabù intoccabile, i magistrati scorrazzano sulla politica.
Questo squilibrio non può continuare. E il caso Berlusconi è un paradigma. Una persecuzione durata vent'anni nel contesto che ho appena descritto è oggettivamente una questione politica, indipendente da qualsiasi merito giudiziario.
Cosa fare dunque? Come trarre ex malo bonum? Come cittadino, ciascuno di noi, ha certamente a disposizione le possibilità offerte dall'iniziativa radicale di referendum abrogativi su vari profili della mala giustizia. Ma serve un'iniziativa anche della politica. Un'assunzione di responsabilità. E questa iniziativa, ancora una volta, ce l'ha indicata il Capo dello Stato. Allorché, con le dichiarazioni a seguito della sentenza della Cassazione, ha evocato il lavoro dei saggi da lui incaricati nell'aprile scorso per studiare i termini di una riforma dello Stato e della giustizia.
Il presidente Napolitano ha ragione, le proposte dei saggi sono un ottimo punto di partenza. Sono il viatico per l'inizio di quella pacificazione di cui l'Italia ha bisogno e di cui il presidente si è fatto garante all'inizio del proprio secondo mandato.
Piuttosto che reagire scompostamente con dichiarazioni provocatorie che hanno l'unico effetto di confermare le difficoltà interne, i leader del Pd dovrebbero prendere sul serio le dichiarazioni del presidente della Repubblica. Diamo veste normativa alle proposte dei saggi. Ripristiniamo l'equilibrio costituzionale. Chiudiamo questi vent'anni di guerra ideologica.
Ex malo bonum.
L'alternativa è continuare con un logoramento che finirà per travolgere tutti, minare la stabilità del governo del paese, nel momento in cui più grande è il bisogno di stabilità per raccogliere le opportunità offerte dalla timida ripresa.
Un'opportunità è offerta già dalle prossime ore. La giunta per le elezioni del Senato è chiamata a pronunziarsi sulla decadenza di Berlusconi a seguito della condanna e in applicazione della legge Severino-Monti. Ma quella legge, come messo in luce anche dalla dottrina, presenta forti dubbi di costituzionalità. Perché si tratterebbe di applicare la sanzione dell'ineleggibilità a fatti precedenti all'entrata in vigore della legge. Un'applicazione retroattiva di una legge sugli effetti di una condanna penale. La Convenzione europea dei diritti dell'uomo lo vieta. E la Costituzione italiana impone che quella convenzione sia rispettata.
Evitiamo una guerra per bande anche su questo punto. Dimostriamo tutti senso di responsabilità.

Cogliamo l'occasione: ex malo, bonum.

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