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La grande lezione dei marò: "Ancora qui per aver obbedito"

Una nazione che si rispetti non può dimenticare i suoi soldati, non può chiedere loro di sacrificare anche la vita e poi abbandonarli di fronte alla prima difficoltà

La grande lezione dei marò: "Ancora qui per aver obbedito"

«Abbiamo obbedito a un ordine e siamo ancora qui». Le parole dei nostri marò, prigionieri dell'India da 28 mesi, non lasciano spazio a dubbi: si sentono abbandonati e chiedono all'Italia, al governo di riportarli a casa, di fare il proprio dovere. Come hanno fatto loro, sia da militari in missione sia obbedendo alla folle richiesta della «banda Monti» di ritornare in India nel marzo dello scorso anno.
«Abbiamo mantenuto una parola, quella che ci era stata chiesta e che ancora, con dignità per la nostra nazione, per tutti i militari, continuiamo a mantenere». Quello di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre non è un grido di dolore, come i soliti politicamente corretti vogliono farci credere, ma un atto di accusa. Una nazione che si rispetti non può dimenticare i suoi soldati, non può chiedere loro di sacrificare anche la vita e poi abbandonarli di fronte alla prima difficoltà o al primo ostacolo che minacci il proprio tornaconto.
Eppure è una tragedia già vista. Come si può dimenticare l'8 settembre 1943, quando l'Italia abbandonò al proprio destino le Forze Armate, facendo pagare un tributo altissimo ai nostri soldati. Anche loro «obbedirono», come la Divisione Acqui a Cefalonia, e furono trucidati. Ahimè, i voltafaccia e i tradimenti fanno parte del nostro dna. Ma nella assurda vicenda dei nostri marò, scopriamo che esiste un'Italia migliore, un'Italia che ci piace. E Massimiliano e Salvatore sono quelli che oggi meglio la rappresentano. «Abbiamo ubbidito - hanno detto -. Andiamo avanti con onore per il Paese e per la nostra bandiera». In queste poche parole è racchiuso un mondo di valori che sembravano estinti. Primo fra tutti l'obbedienza. Per chi indossa la divisa è un principio scavato nel cuore. Attenzione, però, l'obbedienza non è una cieca e ottusa esecuzione degli ordini. È una scelta consapevole, uno stile di vita. Solo così si spiega la condotta dei due marò. Massimiliano e Salvatore, infatti, obbediscono alla Patria, non importa chi sia al governo, non importa chi sia a dare gli ordini, non importa se questi siano assurdi. Hanno giurato di servire il Paese e il loro onore, la loro lealtà sono assoluti. Certo, questo non lenisce la loro amarezza e impotenza di fronte alla grande ingiustizia che stanno subendo. Dopo oltre due anni, la magistratura indiana non ha ancora formulato un capo d'accusa nei loro confronti. D'altronde non sa che pesci pigliare, in base alle convenzioni internazionali l'India non ha alcun diritto a processarli. Perciò siamo ancora in stallo, un'impasse che pesa solo sulle vite dei due marò e dei loro cari.
«Quello che possiamo fare è comportarci da militari, da italiani - hanno detto i due fucilieri di Marina - e soffrire con dignità nell'attesa che questa storia abbia termine». Ebbene, questa fiera rassegnazione ci tocca nel profondo e mette quasi in ombra la vicenda diplomatica, portando in primo piano gli uomini. Di fronte a questo senso del dovere, a questo spirito di sacrificio senza contropartite, dobbiamo inchinarci a Massimiliano e Salvatore perché ci hanno ricordato che certi valori non sono scomparsi. E, sebbene nella storia d'Italia ci sia purtroppo sempre posto per i Badoglio o per i Monti, ci riempie di orgoglio riscoprire che ci sono dei soldati, degli uomini capaci di riscattare con semplici parole le folli decisioni prese da altri sulla loro pelle. Una grande lezione. Grazie Massimiliano, grazie Salvatore.

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