Politica

I burocrati di Bankitalia che ci mettono in ginocchio

Gli uomini di via Nazionale ostacolano la ripresa dell'economia: per loro i trattati Ue sono diktat da eseguire. Prima Ciampi e Padoa Schioppa, ora Saccomanni

I burocrati di Bankitalia che ci mettono in ginocchio

Luglio 1981. Forse per comprendere quel che sta avvenendo oggi nel pianeta della finanza pubblica (vicenda Imu-Fmi e flessibilità Ue di bilancio, comprese), bisogna risalire al luglio di 32 anni fa. Al Quirinale c'è Pertini. A Londra si celebra il Royal Wedding tra Carlo e Diana. A Roma matura il divorzio tra Banca d'Italia e Tesoro.
Beniamino Andreatta stabilisce che la Banca centrale (da un paio d'anni in via Nazionale c'è Ciampi) non è più obbligata ad acquistare i titoli pubblici emessi dal Tesoro. Nemesi della Storia: 32 anni dopo, la Bce - retta per di più proprio da un ex governatore di Bankitalia, Mario Draghi - ha nella faretra frecce che la autorizzano ad acquistare titoli pubblici sul mercato. Frecce, al momento, mai utilizzate.

Per la Banca d'Italia dell'epoca, però, e per i giovani che vi lavorano (Fabrizio Saccomanni tra questi), è l'affrancamento dalla Politica. Con il «divorzio» diventano autonomi veramente. Negli anni questa «autonomia» viene declinata in vario modo. Con un comune denominatore: una «supremazia intellettuale» sulla politica e sui governi. Il risultato è la creazione di una aristocrazia tecnocratica all'interno della pubblica amministrazione che segue linee d'azione proprie.

E quando un uomo di Bankitalia viene a contatto con la sfera politica reagisce come l'acqua con il mercurio. È stato così con Padoa Schioppa, è così con Saccomanni. Dini era un corpo estraneo alla Banca d'Italia, veniva dall'Fmi. Con Ciampi avvenne diversamente, ma solo perchè Ciampi - in virtù dell'emergenza euro - piegò la Politica alla sua politica, che faceva leva su sponde europee. Una scelta che poi lo portò al Colle.

In altre parole, quella «supremazia intellettuale» instillata in Via Nazionale rende gli uomini di Bankitalia prestati al governo anelastici rispetto agli equilibri di governo. E, quindi, incapaci a trasferire sulla finanza pubblica il principio di Von Bismarck «la politica è l'arte del possibile».

Il concetto di negoziato non appartiene agli uomini di Banca d'Italia. Tantomeno quello del negoziato europeo. La loro «supremazia intellettuale» s'infrange quando - cambiata casacca ed arrivati al governo - devono (o dovrebbero) negoziare posizioni politiche a Bruxelles. A quel punto emergono due punti deboli: la mancanza di duttilità ed un vago complesso d'inferiorità. Al tavolo europeo dà loro fastidio dover rappresentare un Paese che spesso è in affanno nel rispetto dei parametri dell'area euro. Loro sono abituati ad essere i «migliori» in ogni campo (matematica monetaria, inglese, conoscenza dei dossier) e dà fastidio - o non sono capaci - essere chiamati dal governo a leggere i Trattati con gli occhiali della Politica. Quindi, ostacolano ogni ipotesi di negoziare i Trattati europei al fine di dare fiato all'economia reale. Non sono disposti a farlo: dalla Politica se ne sono affrancati 32 anni fa, con il divorzio dal Tesoro. Sono figli di una generazione diversa da quella di Guido Carli, quando si giustificò per aver stampato moneta «perché lo Stato non si può permettere di non pagare lo stipendio a maestre e Carabinieri». Quelli che 32 anni fa hanno divorziato dalla Politica si sono abbeverati alla dottrina trasferita da Fratianni e Spinelli con la loro Storia monetaria d'Italia: un saggio che critica Carli ed esalta il «divorzio». È ovvio, quindi, che la «supremazia intellettuale» non contempli anche sensibilità politica; anzi, l'aborre. Da qui, l'impasse attuale.

Non è un caso che Enrico Letta abbia parlato per la prima volta di maggiore flessibilità dei bilanci europei al G8 nell'Irlanda del Nord: al suo fianco non aveva il ministro dell'Economia. Ed è ugualmente singolare che tutti i ministri abbiano commentato favorevolmente la possibilità di scorporrare dal deficit la quota nazionale di co-finanziamento europeo; e l'unico cauto sia stato proprio Fabrizio Saccomanni. Fa parte della sua formazione: distante dalla Politica, come dimostrato nel vertice di maggioranza dell'altro giorno.

Mario Draghi, che lo voleva al suo posto in Banca d'Italia, era di un'altra pasta. Lui non è cresciuto in Via Nazionale, c'è arrivato dopo un lungo periodo come direttore generale del Tesoro chiamato da Carli. Si è dovuto misurare per anni con la Politica, senza per questo sentirsi inquinato.

E lo sta dimostrando a Francoforte.

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