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I funerali laici di Napolitano. Il figlio: "Fece anche errori"

Sfilata di potenti a Montecitorio. Letta sul rapporto col Cav: "Mi piace immaginare che possano chiarirsi lassù"

I funerali laici di Napolitano. Il figlio: "Fece anche errori"

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Quattro sono i capi di Stato e una decina gli ex premier. Sei i corazzieri che vegliano la bara e cento gli ambasciatori in grisaglia. Nove gli interventi, mille il pubblico di parlamentari, sindaci, sindacalisti, capitani d'industria e, al centro, sotto le vetrate liberty di Montecitorio, i presidenti dei due paesi forti dell'Europa, Francia e Germania. Il rito, i simboli, la potenza delle immagini. Il tentativo di riunificare una nazione. Ecco i funerali solenni, laici, un po' freddi forse, di palazzo più che di popolo, di re Giorgio. Ecco che pure Ignazio La Russa rende omaggio a Napolitano, l'ex comunista «che ha saputo conformare i propri convincimenti all'evoluzione dei tempi». E quando tocca a Gianni Letta, si capisce il senso profondo di questa liturgia nazionale bipartisan. «È un lutto repubblicano, basta con le divisioni». Superati anche, dice, gli scontri con Silvio Berlusconi. «Mi piace immaginare che incontrandosi lassù possano chiarirsi e ritrovarsi nella luce».

King George e il Cav, una storia di ribaltoni e incomprensioni. Ora però che sono scomparsi a tre mesi di distanza, Letta propone «di chiudere quel capitolo turbolento» e di andare avanti. «Erano due persone così distanti - spiega l'uomo che teneva i rapporti e i segreti - due mondi opposti, due figure diverse chiamate a condividere i massimi incarichi di Stato». Non si sono mai presi. «Poteva essere difficile quella convivenza e infatti non fu sempre facile, non mancarono i momenti di tensione e di polemiche, ma da tutte e due le parti non venne mai meno la volontà e la forza di mantenere il rapporto nei binari della correttezza istituzionale».

Dal Bottegone al Colle, primo comunista al Quirinale, primo presidente eletto due volte. Esequie di Stato per l'uomo dei record: era dai tempi di Giuseppe Saragat che non accadeva. E non era mai successo che il corpo di un presidente venisse portato dentro la Camera per l'estremo saluto. Certo, ricorda la Russa, Napolitano è stato divisivo, «ha svolto ruoli e assunto decisioni difficili, come i grandi leader ha avuto contrasti». Non poteva piacere a tutti, lo ammette pure il figlio Giulio. «Ha combattuto buone battaglie e sostenuto scelte sbagliate, riconoscendo anche i suoi errori. Non ricordo un solo giorno della vita di mio padre senza la politica, che per lui era una cosa seria che richiedeva analisi, ascolto e assunzione di responsabilità. Non sopportava la demagogia e l'urlo».

Uomo dei contrasti, odiato e amato, mai banale. Sulla scrivania aveva la foto di Churchil con le dita a V dopo la vittoria, come rammenta Paolo Gentiloni. «È stato un sostenitore dell'atlantismo e dell'europeismo, secondo lui l'Italia poteva avere un futuro di sviluppo soltanto nell'Unione. La Ue è stata una scelta di campo e di vita fin dai tempi del Pci». Una svolta tardiva? Eppure nel partito, dove era sempre in minoranza, lo consideravano di destra e lo chiamavano l'amerikano. «Grande fu il suo tormento di fronte ai fatti di Budapest del 1956 e di Praga nel 1969 - ricorda Giuliano Amato - che lo portarono alla difficile impresa di far prevalere nel partito le ragioni della democrazia». Sforzo fallito, vinse come al solito la linea ortodossa e Napolitano si allineò alla decisione di sostenere comunque Mosca. Ma nel 2006, appena eletto al Quirinale, compì un gesto di riparazione e nel suo primo viaggio all'estero, a Budapest, depose una corona di fiori e si inchinò sulla tomba di Imre Nagy.

Funerali laici, con il feretro che attraversa Roma: dal Senato alla Camera al cimitero acattolico del Testaccio. Il Papa non ha fatto il segno della croce e ora il cardinale Angelo Ravasi, amico di Napolitano e protagonista di un lungo dialogo tra atei e credenti, vuole portare «un fiore ideale tratto dal libro del profeta Daniele: i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento». Anna Finocchiaro si commuove. «Ma Giorgio non era un tenero - racconta - io più che le telefonate temevo le lettere.

Quando si infuriava la sua calligrafia diventava molto appuntita».

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