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Jeans a 80 centesimi Ecco perché fanno male a tutto

Quattro michette. Mezzo litro di latte al super. Mezzo chilo di pasta al discount. Un caffè nei bar meno frequentati della periferia di un paesino non turistico. Otto chewingum. Una bottiglietta di acqua minerale da mezzo litro nelle macchinette aziendali. Ecco, sul mercato italiano si può comprare poco o niente con ottanta centesimi nel borsellino. Ma sul mercato delle contraffazioni, un grossista riesce a spendere quella cifra per accaparrarsi «bel» paio di jeans con tanto di griffe fasulla. Non è uno scherzo anche se sembra impossibile cadere così in basso. Ma è tutto vero. Anche se ieri, persino i militari della Guardia di Finanza hanno sgranato gli occhi quando hanno aperto le porte di un tir frigorifero al valico commerciale di Como-Brogeda. Doveva essere un abituale controllo di routine. Invece nella cella frigorifera, i quarti di bue erano stati sostituiti da ventimila capi di abbigliamento, pantaloni e giubbetti in jeans da donna con marchio «Dsq Dsqueen», riproduzione illegale del marchio della casa di moda italiana «Dsq Dsquared».
Il Tir arrivava dalla Svizzera e il carico era stato sdoganato in Germania da una società inglese che aveva concluso la transazione con due società romane, amministrate legalmente da due cinesi che sono stati denunciati per introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni mendaci.
Fin qui è la cronaca di un fatto molto diffuso nel mondo del contrabbando. La cosa strabiliante, però, è che ogni capo, rigorosamente prodotto in Cina, è stato importato al prezzo di 80 centesimi ciascuno, somma aumentata di qualche centesimo nel passaggio della merce tra Inghilterra e Italia. Forse si arriva a 90 centesimi e abbondiamo pure ad un euro. Ma sempre di un euro si tratta. Il costo di una tazzina di caffè.
Com'è possibile che un capo di abbigliamento nuovo, identico a quello griffato possa essere smerciato al prezzo di niente? E cosa sarà costato all'origine? Cinquanta centesimi? E allora quale sarà la paga dell'operaio (forse bambino) che l'ha confezionato? Che materiale sarà stato usato? O peggio, che prodotti chimici saranno stati maneggiati per tingere il tessuto?
Gli interrogativi sono inquietanti per non parlare di quanto sia destabilizzante veder circolare merci a così basso costo per il settore tessile nostrano già alla frutta.
Purtroppo, al consumatore già in bolletta, non frega niente dello sfruttamento della manodopera, dell'inquinamento in Cina o della contraffazione. Al lui interessa acquistare i jeans griffati (anche clamorosamente falsi) a prezzo basso, tipo dieci euro e se costa cinque meglio ancora. Li sceglie al mercato e li porta a casa soddisfatto e orgoglioso di aver fatto un buon affare. Ignaro di quello che può succedergli quando li indossa.
Eppure basta dare un'occhiata a Internet per trovare validi motivi di stare alla larga dai prodotti a così basso prezzo. I jeans contraffatti, per esempio, sono spesso trattati con sostanze chimiche non idonee al contatto con la cute umana e possono dare origine a fenomeni allergici o di intossicazione. Un esempio solo le ammine aromatiche, sostanze liberate dai coloranti durante le fasi produttive ed il successivo utilizzo dei capi d'abbigliamento. Queste ammine, assorbite a livello cutaneo, sono ad effetto cancerogeno soprattutto nei confronti della vescica. Secondo la CNA Federmoda, già nel 2005 oltre Il 50% dei prodotti presenti sulle bancarelle era contaminato da questa sostanza, che risulta essere abbondante nei capi di colore nero.

E di sicuro nel 2013 la situazione non può che essere peggiorata.

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