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Kyenge e lo «ius soli» per tutti: è italiano anche chi cresce qui

Kyenge e lo «ius soli» per tutti: è italiano anche chi cresce qui

Cittadini per luogo di nascita, per sangue e forse, fra un po' di tempo, anche per crescita. Cécile Kyenge non finisce di stupire. Dove non erano arrivati i padri del diritto romano i quali avevano codificato lo ius soli e lo ius sanguinis, e le cose sono andate discretamente bene per circa duemila anni, giunge ora la ministra dell'Integrazione. Che con un ponderoso trattato di diritto costituzionale sintetizzato in un tweet sancisce la rivoluzione copernicana dell'anagrafe. «2014 verso una nuova cittadinanza: chi nasce e/o cresce in Italia è italiano!», scrive.
Chi deve recuperare le posizioni perdute è portato a strafare. Kyenge non sfugge alla regola. Criticata dentro e fuori il governo, messa alle strette nel suo partito per l'immobilismo davanti alle tragedie degli sbarchi e alle vergogne dei centri di accoglienza e di identificazione, da qualche giorno la ministra ha imbastito una campagna per rifarsi l'immagine rovinata. Ed eccola dare interviste a giornali e tv scaricando tutte le colpe sul ministero dell'Interno (dimenticando che gran parte delle deleghe sull'immigrazione fanno capo a un suo compagno di partito, il viceministro Filippo Bubbico) oppure twittando corbellerie giuridiche.
Secondo la ministra, basterebbe crescere in Italia per diventarne cittadini. Crescere quanto? Mesi, anni, settimane? Bisogna frequentare qualche scuola? Avere un posto di lavoro? È necessario o no conoscere l'italiano? Chi stabilisce la crescita minima per avere la cittadinanza? Insomma, che cosa significa la frase «chi cresce in Italia è italiano» se non l'ennesimo luogo comune, uno slogan buono per guadagnare altro spazio su giornali e tv? Nemmeno nel Pd danno molta corda a Cécile Kyenge: soltanto Davide Faraone, responsabile Welfare dei democratici, si dice d'accordo.
Rispetto a qualche giorno fa, quando lavandosi le mani del problema aveva fatto lo scaricabarile sul Viminale e sostenuto che le sue competenze si limitano a stabilire le «linee guida» degli interventi, il ministro ha corretto il tiro. «La mia attività - ha scritto in un altro tweet - è impegnata sul miglioramento delle misure di accoglienza». Ma i tweet non bastano. Scortata da fotografi e telecamere, Kyenge ha trascorso la mattina di Natale in una mensa per i poveri, il centro Astalli di Roma gestito dai gesuiti, l'ordine di Papa Francesco. Bergoglio l'aveva già visitato il 10 settembre scorso: una scelta ben ponderata, quella del ministro.
Grembiule e guanti blu, bustina bianca in testa, accompagnata dal marito Domenico Grispino (che ha preferito restare in disparte) e dalle figlie Giulia e Meisha (che invece le sono rimaste a fianco), la ministra ha dispensato piatti di bucatini ai migranti ospiti del centro tra flash e telecamere. Nel pomeriggio si è fatta intervistare dalla trasmissione Baobab di Radio Uno: «Ho voluto mangiare quello che mangiano loro e soprattutto servirli. Una persona che siede nelle istituzioni deve dimostrare di essere tra la gente e servire gli altri», ha sentenziato.
Qualcuno su Twitter ha sostenuto che nel refettorio la ministra indossasse un orologio di lusso. «Macché, è un Tissot da 200 euro che le ho comprato io a Modena», smentisce il marito. Nega anche il capo della segreteria di Cécile Kyenge, Paolo Negro: «Ero presente al centro Astalli e non ho visto addosso al ministro alcun orologio di pregio».
Gaffe evitata.

Ma nel Pd non hanno comunque gradito: «Quello che mi aspetto da lei - ha detto il deputato Dario Ginefra - è la capacità di provvedere, con gli strumenti propri del suo dicastero, alla soluzione dei problemi».

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