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L'arte di fare i soldi con la cultura

L'arte di fare i soldi con la cultura

di Luca Beatrice

Non si dica più che non ci sono i soldi per la cultura. È una balla: abbiamo ancora risorse importanti, se solo per una mostra il più importante dei critici italiani pretende e ottiene un fee di 750mila euro. Una mostra che immaginiamo di gran classe ma per pochi, come nel suo stile. Con l'Arte Povera ha desertificato i musei eppure le cattedrali vuote restano, e invece di investire in conservazione o produzione di un nuovo gusto italiano si continua a foraggiare il ricchissimo curatore genovese, in pista dal 1967, che risponde al nome di Germano Celant.
È il «barone rosso» della cultura italiana, barricadero nel Sessantotto, radical chic negli anni Ottanata, potentissimo oggi. Sarà per l'assonanza del nome, Celant sta all'arte come Celentano sta alla televisione: pretendono un sacco di soldi senza che prima si sappia nulla di ciò che faranno. Gode di protezioni molto in alto ed è amato dai potenti, soprattutto nel campo della moda, perché è bravissimo a far guadagnare i committenti e creare plusvalenze. Prendiamo il caso Enrico Castellani, che a inizio degli anni Duemila costava poche decine di migliaia di euro: dopo l'operazione Celant e conseguenti battute d'asta il valore si è almeno decuplicato. Ora sta lavorando su Mimmo Rotella, il cui mercato è bassino, ma c'è da scommettere sul rilancio a breve.
La reputazione di Celant è fuori discussione ma il suo modo di intendere l'arte è vecchio, oligarchico, figlio di quella cultura di sinistra del «meno siamo meglio stiamo». La sua ultima Biennale data 1997, e fu il trionfo dell'establishment più tronfio e noioso. Poi non ricordiamo imprese memorabili. Nel 2004 per Genova capitale della cultura prese una vagonata di soldi per un progetto su arte e architettura che non ha lasciato traccia. Dopo il Guggenheim la sua gallina dalle uova d'oro si chiama Prada, un rapporto con grande soddisfazione economica di entrambi.
Nel frattempo il mondo dell'arte è andato avanti, più globale e fluido. I curatori quaranta-cinquantenni hanno una visione molto più dinamica e trasversale, seguono dinamiche culturali che Celant non conosce. Ce ne sarebbero stati diversi in grado di lavorare per l'Expo sui linguaggi della contemporaneità, e a prezzi decisamente più convenienti. Perché, diciamolo, 750mila euro non si danno neanche a chi riesce a far resuscitare Picasso.
Celant è potentissimo e intoccabile come certi politici della Prima Repubblica ancora saldamente in sella. Uomo per tutte le stagioni, trasversale e scaltro, la sua specialità è il mercato: un uomo abilissimo a tessere trame e lavorare con il denaro. I privati che lo chiamano fanno benissimo, perché il suo fiuto, finché c'è, è un investimento. Ma visto che questa volta si tratta di Expo, cioè del biglietto da visita dell'Italia di fronte al mondo, la scelta doveva cadere su qualcun'altro, magari più in palla di un 74enne che dopo l'Arte Povera non ha più inventato nulla.
Con i soldi risparmiati dal suo compenso si poteva finanziare un restauro a Brera, erigere un'opera pubblica, produrre qualche giovane emergente.

Ma se il piatto è ricco c'è Germano in agguato, con i suoi sponsor personali pronti a sfidare ogni logica e ogni buon senso per imporre il loro immarcescibile pupillo.

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