Politica

L'editrice che pilota l'aereo e fa sognare l'auto ai cinesi

Non si può parlare di Giovanna Mazzocchi, l'editrice di Quattroruote, senza parlare del padre Gianni, l'editore che inventò il mensile dedicato alle auto sognate dagli italiani, ma anche L'Europeo diretto da Arrigo Benedetti, Settimo Giorno diretto da Emilio Radius, Il Mondo diretto da Mario Pannunzio, Domus diretto da Gio Ponti, l'architetto del grattacielo Pirelli. E, ancor prima, l'antesignano di Panorama, che aveva l'unico difetto d'essere troppo in anticipo sui tempi: lo mandò in edicola nel 1936. Un giorno Angelo Rizzoli incontrò il suo concorrente e gli disse: «Tu sei un cretino. Fai dei bellissimi giornali e non ci guadagni. Io faccio dei giornali brutti e ci guadagno». Ribatté Mazzocchi: «Per forza. Tu stampi i giornali per far soldi, e li fai. Io li faccio per divertirmi, e mi ci diverto».
Per divertimento «il più geniale editore del dopoguerra» (definizione di Enzo Biagi, che aggiungeva: «Nessuno ha inventato tanti giornali come lui») pubblicò il primo libro di Indro Montanelli, XX Battaglione eritreo, all'insaputa dell'autore, raccogliendo le pagine del diario che quel giovane e sconosciuto ufficiale di truppe indigene spediva a suo padre dall'Etiopia. E per divertimento nel 1945 radunò nella redazione dell'Europeo, uscito con un editoriale di Bertrand Russell in apertura del primo numero, una squadra di giornalisti mai vista prima; solo per citarne alcuni, in ordine strettamente alfabetico: Tommaso Besozzi, Dino Buzzati, Emilio Cecchi, Camilla Cederna, Nicola Adelfi, Ennio Flaiano, Vittorio Gorresio, Alberto Moravia, Ugo Stille, Renzo Trionfera.
Sempre per divertimento, la figlia Giovanna, dal 1984 alla guida dell'Editoriale Domus dopo la morte del padre, ha lanciato - affiancata dalla primogenita Sofia, che continua la tradizione di famiglia - il più incredibile periodico mai concepito in Italia: un Quattroruote in ideogrammi per i cinesi che vivono nel nostro Paese, completamento naturale di quello per i cinesi che vivono in Cina e nel resto del mondo edito a Pechino ormai da 10 anni. Le uniche concessioni alla lingua di Dante sono la testata e i nomi delle auto recensite. «Questo giustifica l'e-mail di protesta che ho ricevuto da un lettore frettoloso e molto simpatico, il quale in stazione, un attimo prima di salire sul treno, ha comprato per sbaglio l'edizione cinese anziché quella italiana: “Flegato!”».
Come suo padre, che oltre a 14 riviste le ha lasciato in eredità anche un museo dell'automobile ospitato nella sede milanese di Rozzano, Giovanna Mazzocchi le quattroruote le ha nel cuore, anzi sul cuore, visto che la chiave d'accensione della sua Bmw X6 Active Hybrid la tiene appesa al collo con un cordino regalatole da un bonzo una ventina d'anni fa, «così non la perdo». Non che di auto ne abbia avute tante prima di questa: «Mini, Mini Cooper, Alfa 1300, Lancia cabrio, Mercedes giardinetta, qualche Audi, Touareg, Q7. Finisce che mi affeziono e le tengo».
La verità è che l'editrice di Quattroruote, ma anche di Volare, ha il brevetto per pilotare i jet e, più che il volante, ama impugnare la cloche del suo Cessna Citation Bravo omologato per 9 passeggeri. Da quando a 18 anni conseguì il primo brevetto e suo padre le regalò un aereo usato, un Piper Comanche, ha già totalizzato oltre 3.000 ore di volo. «Il Cessna me lo portai in Italia da sola. Decollo da Wichita, nel Kansas. Scali a Buffalo e a Goose Bay. Sul Labrador vidi in piena notte una luce incredibile e mi spaventai a morte: era un'aurora boreale. Infine Reykjavik, Londra, Milano». Un volo meno rischioso di quello verso Riyad, dove andò per trattare l'edizione araba di Domus. «All'atterraggio non volevano lasciarmi scendere dalla cabina di pilotaggio. Figurarsi, in Arabia Saudita le donne non possono guidare manco l'auto. Mi hanno subito rivestita di nero».
Giornalista professionista incredibilmente retrocessa a pubblicista dall'Ordine per incompatibilità col mestiere di editore, poliglotta (ha anche un diploma in cinese), laureata in scienze politiche all'Università di Pavia, a capo di un gruppo che ai tempi d'oro contava oltre 12 milioni di lettori nel mondo e continua a dare lavoro a 350 persone, Giovanna Mazzocchi è sempre stata abituata a cavarsela da sola. Rimase vedova all'età di 35 anni, quando la figlia più piccola aveva appena 13 mesi. «Oggi Susanna sta per conseguire la sua seconda laurea. È nel settore equitazione del Centro sportivo dell'Arma dei carabinieri. Ha partecipato alle Olimpiadi di Atene e Pechino e ha mancato quelle di Londra a causa di un brutto incidente. Se non mi cade di sella un'altra volta, a febbraio diventerò nonna».
Perché chiama «Biemve» anziché «Biemmevù» la Bmw?
«Ho frequentato la Scuola germanica di Milano dall'asilo alla maturità. Con grande disdoro di mio padre, latinista e grecista formidabile, che inorridiva all'idea di ritrovarsi una visigota in famiglia».
Però la mandò in una scuola tedesca.
«Non lui. Mia madre, Emma Robutti. S'era innamorata di papà in Domus, dove lui l'aveva chiamata a dirigere i periodici di tricotage, Fili moda, Fili bimbi, Fili d'oro e Fili lana. Durante la guerra, riuscì a trovare una sede per la casa editrice a Bergamo, dov'era sfollata, parlando in tedesco con alcuni ufficiali dell'esercito di occupazione. “È stato utile a me, sarà utile anche voi”, diceva a me e a mia sorella».
Come le salta in mente di pubblicare un Quattroruote per i cinesi d'Italia?
«Be', c'erano già le edizioni per Cina, Russia, Brasile, Turchia, Ucraina, Ungheria, Romania, Bosnia, Macedonia, Serbia, Slovenia. Abbiamo sempre avuto una vocazione internazionale. Domus conta abbonati in 88 Paesi dei cinque continenti. Nel 1989 si fece viva la Novosti, l'agenzia di stampa ufficiale dell'Unione Sovietica. Per favorire la glasnost e la perestrojka, Mikhail Gorbaciov voleva che Domus pubblicasse il suo piano urbanistico quinquennale. Posi una condizione: a patto che ci mostriate ciò che in Occidente non s'è mai visto, dal Cremlino al cosmodromo di Baikonur. Accettarono. Tutti gli architetti dell'Urss si abbonarono. Ricordo che durante una visita a Samarcanda fui ricevuta con gli onori riservati ai capi di Stato. Mi proponevano business d'ogni tipo, dall'esportazione del seme dei tori al commercio dei sottomarini».
Sì, ma una rivista per i cinesi che abitano qui...
«Guardi che in Italia sono 270.000. Controprova: vendiamo circa 7-8.000 copie. Sembrano pochi perché non danno nell'occhio. Un mio amico chirurgo mi ha detto: “Giovanna, lo sai che nel mio ospedale in 30 anni non ho mai operato un cinese? Né ho mai visto un ferito cinese al pronto soccorso o un neonato cinese in maternità”».
Dieci anni fa Quattroruote vendeva in media 482.000 copie, nel 2011 era sceso a 310.000. Un calo del 35%.
«Mi sono capitate addosso tre crisi concomitanti: dell'economia, dei giornali e dell'auto. Non mi sono fatta mancare nulla. La terza è la peggiore per chi come noi realizza il 70% del giro d'affari con i motori. Da sinonimo di sogno, libertà, avventura, conoscenza, passione, l'auto è diventata una commodity denigrata, costosa, spremuta dal fisco. La slot machine dello Stato ingordo. Ma oggi è cambiato il concetto stesso di mobilità. I giovani viaggiano con l'Ipad anziché con la macchina. Le edicole per i diciottenni sono elementi di arredo urbano, com'erano i vespasiani per noi bambine negli anni Cinquanta: guai ad avvicinarsi. Abbiamo dovuto cambiare pelle. Il nostro sito nel 2011 ha generato ricavi per 7 milioni di euro. Il bilancio resta attivo. Ma che fatica! Siamo un'azienda familiare, nessuno ci tiene in piedi».
Per quanto tempo ancora durerà la crisi dell'auto, secondo lei?
«Nel 2009 si vendevano in Italia 2,5 milioni di vetture. Quest'anno saranno 1,4 milioni. È un mercato saturo. La crisi ha falcidiato anche le flotte aziendali. La mia casa editrice ha un parco di 40 auto, le cambiavamo in media ogni tre anni. Ora ce le teniamo per quattro, cinque, sei... Mi aspetto un 2013 terribile. Secondo me a quei 2,5 milioni non ci torneremo mai più».
Andremo in bicicletta?
«I ciclisti sono arroganti. Circolano contromano, parlano al telefonino, ti tagliano la strada e hanno pure il coraggio di picchiarti il pugno sulla carrozzeria se osi farglielo notare. Quando giro per Milano con la Smart, mi trasfiguro, divento come Crudelia De Mon: li tirerei sotto tutti. E guardi che sono ciclista anch'io».
Niente bici. E allora quale altro mezzo useremo?
«Il convertiplano a decollo verticale. L'Agusta Westland l'ha già pronto. Ma costa 25 milioni di euro».
Suo padre avrebbe dovuto costruire un aeroporto, invece del centro prove di Vairano, nel Pavese.
«No, quello l'ho voluto io 25 anni fa. Per una vita l'ingegner Flaviano Moscarini, cugino di papà, era stato costretto a collaudare le auto per Quattroruote sulla pista dell'aeroporto di Ciampino, all'alba. Ci serviva un rettilineo di 2 chilometri, più lungo di quello dell'autodromo di Monza. Mettere insieme i 150 ettari di sette diversi proprietari non fu facile. Per darmi la concessione edilizia i politici pretendevano che affidassi i lavori a un'impresa di loro gradimento, ci siamo capiti... Non se ne parla neanche, risposi. E per sette anni mi sono accontentata di tenere su quell'area la cascina con i polli e i maiali. Intanto i costi di costruzione lievitavano. Alla fine spesi 12 miliardi di lire. Oggi il centro prove costa 1,5 milioni di euro l'anno».
E quanti ingegneri ci lavorano?
«Troppi». (Ride). «Mi faccia contare... Sette».
Che garanzie date al lettore di dire tutta la verità, nient'altro che la verità sui veicoli che provate a Vairano?
«Totale. Ogni test viene ripetuto tre volte. Gli strumenti di precisione forniscono diagrammi su consumi e frenate paragonabili per accuratezza a elettroencefalogrammi. Metodi e processi sono certificati da un ente di controllo straniero: prima era norvegese, oggi è inglese. I costruttori attingono ai nostri database per migliorare le auto, tanto che questo ramo d'azienda per noi vale 10 milioni l'anno. Ben pochi sanno che è Quattroruote a determinare per officine e carrozzerie i tempi standard di riparazione delle vetture, così come i nostri listini del nuovo e dell'usato fanno testo per concessionarie e assicurazioni».
Le case automobilistiche vi tolgono la pubblicità dopo qualche giudizio poco lusinghiero?
«Sì, qualche ritorsione c'è. Ma poi tornano. Ricordo telefonate di fuoco dell'ingegner Roberto Testore, amministratore delegato della Fiat negli anni Novanta, e di Sergio Pininfarina. Io rispondevo: scusate tanto, ma se parlassimo sempre bene di tutte le vostre auto, chi ci crederebbe? È stata questa indipendenza a premiarci».
Qual è il modello più orrendo che abbia mai visto?
«Sono indecisa fra Simca 1000 e Nsu Prinz».
Che cosa pensa della polemica sulle strategie di Sergio Marchionne?
«Fin dall'inizio Marchionne ha puntato sugli Stati Uniti, dove incontra più libertà d'azione. L'Italia se l'è dimenticata da mo'. Nessuno ricorda che nel 2006 la Volkswagen licenziò 4.000 dipendenti epperò nel 2011 l'utile è più che raddoppiato e oggi dà i premi di produzione. Quando un braccio è putrefatto, devi tagliarlo per salvare il resto del corpo. È vero, la Fiat negli ultimi 60 anni è stata aiutata in tutti i modi dallo Stato. Purtroppo la riconoscenza non è di questo mondo. Quando nel 1956 nacque Quattroruote, in Italia c'erano 11 case automobilistiche. Ne resta una. E anche per quella tira aria di smobilitazione. Triste».
Per assumere un direttore, che criteri segue?
«Curriculum, colloquio, istinto. Siamo tutti figli delle nostre esperienze, ma il futuro non lo conosciamo, per cui ogni scelta è un terno a lotto. Lei vede grandi direttori sul mercato? Io no. Una volta mi permettevo di dar loro qualche suggerimento. Oggi mi trattengo perché ho capito che è meglio lasciarli liberi di fare qualche vaccata, però genuina, piuttosto che costringerli ad adottare, solo per compiacermi, correzioni di rotta in cui non credono».
Può sempre licenziarli.
«Quando devo farlo, ho le crisi di abbandono. Ci sto male tre mesi prima e due mesi dopo, anche se hanno combinato qualche birichinata. Prima pensavo che il rapporto editore-direttore fosse per tutta la vita. Purtroppo i tempi di percezione della fine di un ciclo non sono uguali per entrambi, e questo dispiace sempre».
Dicono che con lei sia impossibile litigare. Al massimo si può fare una sola volta, perché una seconda occasione non la concede.
«Non sono irascibile e non serbo rancore. Ma ho buona memoria».
La considerano un'editrice pura. Non ha davvero altri interessi oltre alle riviste che pubblica? Vede altri editori puri in Italia?
«No, non ho altri interessi. E non vedo altri editori che campino solo di edicola e di pubblicità. Mi sorge il dubbio che non sia giusto. Quando ti ritrovi a essere l'unico che fa una cosa, è d'obbligo porsi il quesito: sono un genio o un imbecille? Ci dovrò riflettere, questa sera».
(619. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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