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La lezione choc del giudice: una toga d'onore non si pente

E rrare, si sa, è umano. Ma perseverare, i latini insegnano, è diabolico. Perché un conto è sostenere la propria tesi. Altro però è negare l'evidenza di due sentenze, quelle che in Appello e in Cassazione hanno sancito che Enzo Tortora era innocente. Eppure Felice Di Persia, il pm che istruì con Lucio Di Pietro quel processo diventato a posteriori l'emblema della giustizia ingiusta in Italia, di questo non si cura. Anzi, con pervicace ostinazione, a trent'anni di distanza, difende (...)

(...) la bontà (sic!) di quella tesi accusatoria poi franata. E non solo. L'ex pm, ormai in pensione dopo una luminosa carriera percorsa sino a Palazzo de' Marescialli, se la prende anche col pm d'udienza Diego Marmo, che con trent'anni di ritardo qualche giorno fa ha chiesto scusa alla famiglia per lo scempio della vita di Tortora.
È la giustizia italiana, bellezza. La giustizia malata, oggi come allora, che può distruggere la vita di un innocente, mentre chi in toga l'ha distrutta fa carriera e non paga. Facile scusarsi adesso, come ha fatto Marmo ora che è nell'occhio del ciclone perché la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei ha scatenato, visti i suoi trascorsi, le ire della famiglia Tortora. Ma facile anche non scusarsi affatto, come fa Di Persia che in un'intervista al Velino non si muove di una virgola da quella che fu la sua posizione all'epoca, quando lui, membro del Csm, fu costretto a difendersi a Palazzo de' Marescialli perché gli avvocati dell'ormai defunto Tortora chiedevano un risarcimento da 100 miliardi. Del resto, risultati alla mano, perché scusarsi? Quell'inchiesta disciplinare finì, ça va sans dire, a tarallucci e vino, con il proscioglimento di tutti e tre i magistrati finiti nell'occhio del ciclone: lo stesso Di Persia; l'altro pm istruttore, Lucio Di Pietro; e il giudice istruttore Giorgio Fontana, che però indispettito lasciò la toga per diventare avvocato. E sicuramente, per il caso Tortora, né Di Persia né i suoi colleghi hanno subito alcuna conseguenza, meno che mai stop in carriera. Anzi. Lui, Di Persia, è salito su fino in cima diventando, nel 1986, membro dell'organo di autogoverno dei magistrati, il Csm. L'altro pm che aveva istruito il processo di primo grado a Tortora, Lucio Di Pietro, è subentrato alla guida della Direzione nazionale antimafia nell'interregno tra la morte di Pier Luigi Vigna e l'arrivo di Pietro Grasso, e adesso è procuratore generale di Salerno. Per non parlare poi di Marmo, il pm che ha chiuso la carriera in toga da procuratore capo di Torre Annunziata e ora si è beccato anche il premio di consolazione, l'assessorato alla Legalità a Pompei. Il bilancio del caso Tortora, dal punto di vista delle toghe che in primo grado hanno ottenuto la condanna del presentatore, è più che positivo: nessun danno subìto, risarcimento zero ai familiari del defunto, e anzi un po' di querele vinte qua e là, contro giornalisti «rei» di avere raccontato quel processo monstre, come è accaduto nel 2011 a Lino Jannuzzi.
Perché scusarsi, dunque? E infatti Di Persia, al contrario di Marmo, non si scusa affatto. Anzi, se la prende proprio con Marmo che sia pure a scoppio ritardato ha fatto mea culpa per quel «mercante di morte» attribuito a un innocente. «Non ho letto – dichiara Di Persia al Velino – quello che ha detto con precisione, ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che “si è pentito con trent'anni di ritardo” e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale». E ancora: «Nel processo Tortora, Marmo c'entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell'accusa». Infine: «A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana». Dulcis in fundo, la sentenza: «Non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura».
Errare è umano, perseverare è diabolico. Marmo almeno ha sentito il bisogno di scusarsi. Di Persia invece no. Per lui il tempo si è fermato al 1988, quando Il Mattino di Napoli pubblicò le 40 cartelle dattiloscritte di cui si componeva la memoria difensiva da lui inviata all'allora ministro di Giustizia, Giuliano Vassalli. «Ministro, io sono innocente», diceva allora. E lo stesso fa oggi. E in fondo, dal suo punto di vista, ha ragione. Perché sbagliata, davvero, è una giustizia che non paga gli errori che commette.

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