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L'operazione rinnovamento: niente comunisti in squadra

Letta fa sponda con Alfano e per evitare i veti incrociati vara a sorpresa un esecutivo di stampo dc. La rabbia degli ex ds che restano tagliati fuori

Angelino Alfano ed Enrico Letta
Angelino Alfano ed Enrico Letta

«Primo governo di grande coalizione dal '47, prima donna ministro degli Esteri, primo ministro di colore (donna): un unicum»: la sintesi del corrispondente della Reuters da Roma, Steve Scherer, dà la misura dell'impresa, normale altrove ma epocale in Italia, che ieri si è compiuta, nel triangolo Montecitorio (dove stava Enrico Letta)-Quirinale-Palazzo Grazioli. Un governo Pd-Pdl-Sc che premia gli ex Dc lascia a bocca quasi asciutta gli ex Ds.
Sapeva di stupire, il presidente incaricato, quando ieri ha letto in diretta tv la lista del ministri: fino all'ultimo si erano rincorse le voci sugli alti e bassi di una trattativa rapida ma sfibrante, si chi entrava e chi usciva e chi batteva i pugni per esserci. Sulla «vecchia guardia» che non mollava e i complicati manuali Cencelli da rispettare nei diversi partiti. Alla fine, è andata in porto - con l'occhiuta benedizione di Napolitano - l'operazione «rinnovamento», escogitata come chiave per evitare la micidiale trappola dei veti incrociati e anche per - come è stato spiegato chiaramente a Silvio Berlusconi dal premier incaricato - limitare al minimo l'«implosione» del Pd, che al primo nome di «impresentabile» di centrodestra avrebbe trovato l'innesco.
«E Berlusconi è stato bravissimo, ci ha dato una grossa mano e ha giocato un ruolo inaspettato: quello del rottamatore», racconta uno di coloro che, nel Pd, hanno seguito da vicino il parto del governo Letta. Il quale si è tenuto in contatto costante con il Cavaliere e con il capo dello Stato, ed è stato coadiuvato all'interno del Pd da Pier Luigi Bersani e da Dario Franceschini. Che è finito al ministero dei rapporti con il Parlamento e per il coordinamento dell'attività di governo, una postazione apparentemente minore ma che in realtà l'ex capogruppo si è «cucita su misura» assieme al neo-premier, e che avrà un ruolo chiave per condurre il veliero governativo tra i marosi e gli scogli parlamentari. E, compito ancor più delicato, per governare dall'esterno il gigantesco, riottoso e indisciplinato gruppo del Pd.
I malumori, va detto, sono tanti, e la lista dei ministri ne ha creati di nuovi. Anche se ora si aprirà la faticosa partita delle compensazioni (sottosegretari, viceministri, presidenti di commissione). «È il governo più democristiano della storia, noi siamo stati tagliati fuori», sibila un esponente Ds. Che promette: «Ora, e a Letta lo abbiamo spiegato con chiarezza, alla guida del partito deve andare uno di noi. Conviene anche a lui». Un partito schierato a sinistra (i nomi che girano per la reggenza fino al congresso sono quelli di Epifani e di Fassina, entrambi robustamente legati alla Cgil) per un governo a traino centrista. La frasetta fatta trapelare da Bersani dopo l'incontro di ieri mattina, a trattative ancora aperte, con il premier incaricato («Il governo va fatto, ma non a tutti i costi») era senz'altro un modo per alzare il tiro aumentando la capacità negoziale di Letta, ma serviva anche a segnalare che l'ex segretario, e con lui l'ala ex Ds, sono pronti a tenersi un certo margine di manovra rispetto al governo Pd-Pdl.
Certo, Bersani all'ultimo minuto ha ottenuto la nomina del suo fedelissimo, il sindaco di Padova Flavio Zanonato, allo Sviluppo economico. Scelto in tutta fretta per «dare un segnale al Nord», dicono in casa Pd, ma soprattutto per sbarrare la strada a Sergio Chiamparino (e quindi a Renzi). E poi c'è il giovane turco Andrea Orlando (Stefano Fassina puntava ad un ministero economico e ha rifiutato l'Ambiente, e ora pensa al partito, dove potrebbe gareggiare per la reggenza con Epifani). Al grande escluso D'Alema è stato dato un contentino con la nomina di Bray (che milita alla Fondazione ItalianiEuropei alla Cultura).

Ma la massima attenzione, Letta e Napolitano, la hanno destinata al pacchetto di mischia destinato a sedere ai tavoli del negoziato europeo: per questo hanno voluto tre punte di diamante all'Economia (Saccomanni), agli Esteri (Bonino) e agli Affari Europei (Moavero), tutti e tre dotati grande considerazione e di reti di rapporti ad altissimo livello internazionale.

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