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La Magna Grecia sulla scia di Atene: verso il crac

di La Grecia antica diede molto alla Sicilia. Le regalò i nomi. «Trinacria» (che i Romani tradussero in «Triquetra») significava «dai tre promontori». Catania era la «grattugia», per gli spuntoni lavici della sua piana. Zancle (la primitiva Messina) era la «falce», come Drèpanon, Trapani: la fertilità di quelle campagne era benedetta, le divinità delle messi cereali, come Saturno e Cèrere, vi lasciarono cadere dal cielo le loro falci, che si trasformarono in lingue di terra a protezione degli ottimi approdi. Àkragas, Agrigento, era «il picco della terra», Panòrmos, Palermo (che i Fenici chiamavano Zyz, «fiore splendido») significava «porto totale».
La Sicilia preellenica ricambiò, con l'accoglienza, la collaborazione. Genti antichissime, lavoratrici della pietra, erano arrivate lì via mare. I greci vi bazzicarono dai tempi mitici. Dèdalo, capostipite degli inventori, fu il primo a trasferirsi all'ombra dell'Etna, e trapiantò l'arte dei palazzi. Ercole attraversò a nuoto lo stretto di Scilla e di Cariddi, mentre Ulisse castigò Polifemo dalle parti di Aci Trezza, le cui acque gorgogliano ancora intorno ai faraglioni, i massi scagliati dal Ciclope accecato contro la nave del fuggiasco di Itaca, che intanto sghignazzava di lui. A un imprenditore di Corinto, Archia, che voleva far fortuna all'estero, la Sibilla di Delfi domandò: «Vuoi la salute o i soldi?». Il futuro colonizzatore rispose che preferiva i secondi. «Va' in Sicilia, allora» fu il responso «e fonda Siracusa». Secoli dopo, il tiranno greco della città, Ierone, vinceva alle Olimpiadi con il suo puledro da corsa. Terone, il suo collega di Agrigento, trionfava con la quadriga, il tiro a quattro, la Formula Uno dell'epoca, che solo i magnati mondiali potevano mettere in campo.
La Sicilia abbondava di tutto, tranne che di metalli. Pindaro la definisce «polýmalos», che si può tradurre sia «ricca di greggi» che «di frutti»: olive, uve da vino, il legname pregiato delle sue foreste, ora ridotte a una percentuale irrisoria dell'ambiente. La fertilità delle zolle sicule, strato calcareo galvanizzato dalle ceneri vulcaniche, era leggenda. Strabone, geografo ed economista, ne paragonava la potenza vegetativa a quella dell'Italia peninsulare, il giardino del pianeta.
Per i greci la Sicilia era un magnete. La colonizzarono in uno dei movimenti migratori che segnarono la storia culturale e politica dell'Occidente. Per primi arrivarono i profughi della guerra di Troia. Al seguito, mercanti, avventurieri, agrimensori. Vi trapiantarono le loro polis. Non erano puri fondachi commerciali, isolati avamposti di nuovi mercati. Erano la terra promessa, per vivere e prosperare. In Sicilia era tutto più grande: più vasti i templi, più larghe le cinte murarie, più diffusi i poderi su cui biondeggiava il vero tesoro, il grano. Era la Magna Grecia, la nuova patria «grande».
Quando esplose il conflitto globale del tempo, la guerra del Peloponneso (431-404 a. C.), lo stratega ateniese Alcibiade pensò che la strada della vittoria contro la rivale Sparta passava per la presa della Sicilia: era il forziere del Mediterraneo, un pozzo senza fondo di uomini e di mezzi. L'idea era corretta. Ma Atene giocò male le sue carte, perdendo la battaglia decisiva nelle acque di Siracusa. E cadde in ginocchio senza più rialzarsi.
Il grano fu anche la maledizione dell'isola. Roma, ormai padrona dell'impero, ne era affamata. Quando la Sicilia diventò provincia, una dipendenza dell'urbe, vi dilagò il latifondo, piaga insanabile. Le campagne diventarono vivai di schiavi, pronti alle rivolte. Governatori di rapina la ridussero sul lastrico. Il più famigerato (ma non il solo) fu quel Verre contro cui tuonò Cicerone, avvocato degli oppressi. Da pretore, Verre strangolò le città con le tasse e le esazioni di grano. Ma il Senato della Capitale aveva la sua parte di colpe: per tenere buona la plebe in città, aumentava le «frumentationes», le elargizioni gratuite di farina. Da dove? Dalla Sicilia, ovvio.
Oggi dalla Grecia rimbalza sull'isola un'eco sinistra: default, fallimento, crollo. Forse Socrate aveva ragione, quando diceva: il Mediterraneo è uno stagno, ci viviamo intorno come rane.

Tutto è in comune: splendori e miserie.

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