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Dal Meeting lezione ai politici: la priorità deve essere l'uomo

Oggi parte la manifestazione di Cl, dove i discorsi astratti non funzionano L'attenzione sull'essere umano non è soltanto un compito dei cattolici

Dal Meeting lezione ai politici: la priorità deve essere l'uomo

Bello e difficile (anche se non impossibile), il titolo «Emergenza Uomo» del Meeting di Rimini 2013, al via oggi e in programma fino a sabato, richiede un'uscita urgente dagli ambiti dentro i quali tutti noi - nella politica come nella società - produciamo i nostri discorsi. Occorre, per capire dove sta l'emergenza, rompere le barriere filosofiche e culturali, e avere il coraggio di produrre un po' di sana mescolanza intellettuale e pratica.

Diciamo subito che l'«uomo», detto così, è un tema da cattolici. Da chi ci aspettiamo un discorso sull'uomo? Siamo sinceri: dai cattolici. «La crisi dell'uomo nel XX secolo», «Quale uomo per il Terzo Millennio?», «Che ne è dell'uomo nella società globalizzata?» sono tutti discorsi da preti, o da rappresentanti molto ufficiali (e quindi a loro modo preti, quale che sia la loro condizione) del cosiddetto mondo cattolico.

Ai non cattolici dell'«uomo» sembra importare poco. Diciamocelo: è un tema noioso. Sta diventando una parola così astratta da risultare quasi insignificante, a meno che non la si accompagni con qualche aggettivo che la possa definire in chiave identitaria: così che la parola «uomo» riacquisterà un senso se accompagnata da qualche aggettivo, come «cattolico», o «gay», o «africano», o «padano», o «malato», che ne definisca lo status.

Prima di addentrarci in qualsiasi discorso sull'emergenza uomo, bisogna perciò provare a spezzare questi cerchi malefici che ci fanno parlare «da» cattolici, «da» gay, e così via. Per fare questo è necessario domandarsi, chiunque siamo e quali che siano le nostre persuasioni personali, che esperienza concreta, fisica, facciamo della parola «uomo» nelle nostre giornate. Così facendo, scopriremo molte immagini comuni a noi tutti, trasmesseci dalla storia recente e dalla cronaca quotidiana. I morti di Auschwitz, quelli dei Gulag, gli infoibati, la guerra infinita in Palestina, la strage di Srebrenica, e poi ancora l'Uganda, l'Afghanistan, e oggi l'Egitto. E tanti altri. E poi le calamità naturali, i terremoti, gli tsunami, le disgrazie aeree o ferroviarie.

Ecco dunque un primo elemento: noi facciamo dell'uomo un'esperienza quantitativa, numerica. Un milione in piazza. Ottantamila spettatori allo stadio. Cinquantamila al concerto. Diecimila esuberi, quattromila licenziamenti, mille prepensionamenti, cinquemila in cassa integrazione. I numeri accomunano i vivi e i morti, le notizie festose e quelle tragiche, privilegiando la quantità sulla qualità. Le statistiche ci allarmano oppure ci consolano, ma piano piano ci allontanano dal corpo, dalla carne dell'uomo.

Ma ecco un'altra espressione interessante: «errore umano». L'uomo si identifica con l'errore. Se l'errore conduce a una tragedia, o comunque a un danno, si dà la caccia al responsabile, che spesso rischia di trasformarsi (anche in politica, s'intende) in una «caccia all'uomo». Altrimenti si tratta, in fondo, di qualcosa di romantico: noi siamo umani perché sbagliamo (mentre se, con grande fatica, riusciamo a non sbagliare, beh, allora siamo un po' meno umani: come se la fatica, l'impegno e il sacrificio non fossero cose umane).

Le osservazioni potrebbero essere moltissime. A me pare che la prima emergenza riguardi la concretezza. L'«uomo» è sempre «questo» uomo, nella sua unicità, nella sua carnalità, nel suo essere radicalmente distinto da ogni altro uomo. E non importa il grado di maturazione che un individuo raggiunge su questo punto.

L'uomo è, il più delle volte, quello che noi «non» vorremmo che fosse. Esso è definito non solo dalle sue appartenenze, ma anche dalla sua refrattarietà all'appartenenza, dal fatto che non ama quello che dovrebbe amare ma poi, sorpresa!, ama ciò che non dovrebbe. In tanti hanno detto che la crisi economica che stiano attraversando è innanzitutto una crisi antropologica. È diventato quasi un luogo comune. E la ragione per cui tante cose vere rischiano di trasformarsi in frasi fatte sta in questo: che è più facile fare un bel discorso che vivere ventiquattr'ore al giorno in una continua attenzione all'uomo, al suo «emergere» dallo sfondo dell'abitudine e della scontatezza.

Tutti preferiamo recitare una parte. Tutti sappiamo quanto è difficile per un uomo politico (così come per ciascuno di noi) uscire dal cerchio frasi di circostanza, dire qualcosa che spiazzi le attese di chi ascolta. Il Meeting di Rimini non ha mai amato i discorsi di circostanza, e ha sempre cercato di far emergere il contenuto delle proprie parole (titoli compresi) dall'esperienza imprevedibile e non sempre codificabile di coloro che vi partecipano come ospiti, come organizzatori o come semplici spettatori.

Questa è la via che esso ci indica, dal 1980: è la via più difficile, ma proprio per questo è la più umana.

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