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Quando Napolitano disse che i carri sovietici in Ungheria avevano salvato la pace nel mondo

Durante l'VIII congresso del Pci Giorgio Napolitano, deputato da tre anni, elogiò senza mezzi termini l'invasione sovietica di Budapest. Solo 50 anni dopo scrisse, in un libro, di essersene pentito

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Nella lunghissima carriera politica di Giorgio Napolitano, resta una macchia che lui stesso faticò a cancellare e, come ammise più avanti, lo tormentò per decenni. Vediamo subito di cosa si tratta. Nell'VIII congresso del Partito comunista italiano, che si tenne a Roma dall'8 al 14 dicembre 1956, Napolitano elogiò senza mezzi termini l’intervento dei carri armati di Mosca in Ungheria, sposando in pieno la linea dettata dal segretario Palmiro Togliatti. Che lo abbia fatto per obbedienza alla linea del partito oppure perché non gli andava di rompere con "casa madre comunista", poco cambia. Un uomo di 31 anni, deputato da tre, non era un bambino incapace di intendere e di volere.

L'Unione Sovietica aveva mandato l'esercito e i blindati a reprimere i moti di Budapest, e la dirigenza del Pci, con Napolitano, condannò la ribellione degli ungheresi bollandoli come controrivoluzionaria. Gli operai che si battevano per difendere la propria terra e la libertà vennero non solo criticati ma addirittura bollati (come scrisse l'Unità in quel periodo) come "teppisti" e "spregevoli provocatori".

Napolitano arrivò addirittura a elogiare l'intervento di Mosca, e nel criticare duramente il compagno di partito Antonio Giolitti, che ne aveva preso le distanze, disse che "l'intervento sovietico in Ungheria" aveva contribuito, oltre che ad impedire che l'Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, "non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell'Urss ma a salvare la pace nel mondo". Sì, avete letto bene, la pace nel mondo difesa dai carri armati sovietici in Ungheria.

Solo dopo diversi anni, tornando su quei tragici fatti di sangue, Napolitano ammise di aver vissuto un tormento per quella dura presa di posizione, e spiegò poi di aver cambiato idea. Il ripensamento lo manifestò, nero su bianco, nell'autobiografia "Dal Pci al socialismo europeo" (Laterza), uscita nel 2005, l'anno prima dell'elezione a Capo dello Stato. Quarantanove anni dopo Napolitano diede ragione ad Antonio Giolitti, riconoscendo che avevano ragione i dirigenti comunisti ungheresi che si erano opposti ai carri armati ma, loro malgrado, erano stati spazzati via. Meglio tardi che mai, anche se non diede mai del tutto ragione agli anticomunisti.

Ma cosa disse Napolitano quando, nel 1968, l'Urss invase Praga? Il segretario Berlinguer aveva preso le distanze e, proprio per questo, ufficialmente il Pci non sosteneva Mosca in quel frangente. Ma va evidenziato un altro dettaglio interessante. Napolitano faceva parte del Comitato centrale del Pci che nel 1969 votò per l'espulsione del gruppo de il Manifesto, gli intellettuali in rotta con il gruppo dirigente comunista, che in un duro editoriale pubblicato sul giornale d'ispirazione comunista aveva titolato "Praga è sola", criticando senza esitazioni Mosca. Il gruppetto, considerato troppo ostile verso l'Urss, fu messo alla porta. Massimo Caprara, ex segretario di Togliatti ed esponente del gruppo dissidente, più tardi rivelò che il motivo di questo allontanamento era economico. Il dirigente del Pci Giorgio Amendola infatti gli avrebbe confidato: "Voi del Manifesto ci costate almeno due miliardi di dollari l'anno.

Se vi teniamo nel partito, questa è la somma che non ci arriverà più dall'Urss".

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