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"Niente carta, usi il pc". E lui fa causa al tribunale

L'avvocato Ruffoni Menon: "Non c'è una legge che obblighi a usare il computer"

"Niente carta, usi il pc".  E lui fa causa al tribunale

Milano - É l'urlo di dolore dell'analfabeta informatico. Del luddista del web. Dell'irriducibile dell'Olivetti. Di uno, insomma, che con i computer non sa e non vuole avere nulla a spartire. E che si trova costretto contro la sua volontà a piegarsi al dominio di Hal. É una sindrome minoritaria, ma già abbastanza conosciuta. La differenza, stavolta, è che il refrattario è un praticante avvocato. In un ufficio della Procura di Milano, si è sentito dare la risposta che milioni di italiani si sentono dare sempre più spesso dalla pubblica amministrazione: «Vada sul sito». Ma, essendo un dottore in legge, ha deciso di usare gli strumenti della legge. E ha sporto denuncia contro ignoti per interruzione di pubblico servizio, abuso d'ufficio e omissione di atti d'ufficio.

Difficile che riesca a ottenere qualcosa, anche perché della informatizzazione la giustizia italiana ha fatto la sua bandiera. Ciò non toglie, dice il legale, che in Italia non esiste una legge che obbliga a comprare e a saper usare un computer. Deve essere garantito un canale d'accesso alla giustizia - e a ogni altro servizio pubblico - anche per i negati del pc, che hanno il diritto ad essere tutelati come qualunque altra minoranza.

La tesi è indubbiamente provocatoria, ma con un suo fascino altrettanto indubbio. Il giovane giurista si chiama Alessandro Verga Ruffoni Menon, ha ventinove anni, e svolge il tirocinio in uno studio milanese. Nella sua denuncia, racconta di essersi recato all'ufficio ricezione atti della Procura «per verificare lo stato di alcuni procedimenti. «Dopo avere atteso oltre un'ora il mio turno, l'impiegata non ha accolto la mia richiesta di informazioni sostenendo che dovevo utilizzare il sistema informatico», scrive Verga. «L'assistente giudiziaria, nonostante le mie insistenze, si è rifiutata di interpellare gli appositi registri, impedendomi lo svolgimento dei miei compiti professionali. Solo dopo aver minacciato di ricorrere alle forze dell'ordine per ristabilire un corretto funzionamento dell'ufficio, l'addetta ha ritenuto di accontentare le mie richieste». Pochi giorni dopo, stessa scena: ma stavolta, nonostante le insistenze del praticante, la risposta cartacea non viene fornita.

E a questo punto della storia, la denuncia prende il tono del pamphlet: «La mia rimostranza deriva dal fatto che il codice non prescrive una norma siffatta. Tra le discipline obbligatorie del corso di laurea in giurisprudenza non vi è l'informatica, neppure lo prevede l'esame di abilitazione alla professione forense. Non posseggo un computer e non ho intenzione di acquistarne uno fino a quando non verrà promulgata una legge che lo imponga. Mi servo di una macchina da scrivere Olivetti Lettera 22. D'altronde alcuni magistrati a Milano rispondono alle istanze difensive perfino a penna, e talvolta con calligrafie illeggibili».

Il giovanotto si rende conto di appartenere a una estrema minoranza, ma proprio per questo invoca tutela: «Non posso accettare di rimanere vittima di discriminazioni solo perché diversamente informatico. Dalla narrazione dell'accaduto affiora con inconfutabile chiarezza il progetto di emarginare e menomare chiunque non voglia adeguarsi a procedure disposte in forma unilaterale». «Ogni minoranza deve essere sostenuta nei suoi diritti», scrive Verga.

Ebbene, i «diversamente informatici» adesso hanno il loro Don Chisciotte.

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