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Il paroliere ateo di Mia Martini che narra Gesù con 45 canzoni

Per salire in alto, capita di dover scendere in basso. Nel caso di Beppe Dati, compositore e paroliere, due rampe di scale alle Cure, rione di Firenze caro a Vasco Pratolini, l'autore di Metello. In questo insolito appartamento, con una trentina di gradini a separare il piano stradale dallo studio affacciato su un giardino interno abbellito da una vigna di uva fragola, sono nate nell'ultimo quarto di secolo alcune delle più gettonate canzoni italiane: Gli uomini non cambiano di Mia Martini; Disperato e L'uomo volante di Marco Masini; Le persone inutili e La forza della vita di Paolo Vallesi; Cosa resterà degli anni Ottanta e Oggi un Dio non ho di Raf; Brutta di Alessandro Canino. Fino alle più recenti Celeste di Laura Pausini e Quel giorno di aprile di Francesco Guccini, per il quale Dati aveva scritto in passato Cirano, Don Chisciotte, Cristoforo Colombo.
A differenza del socialista Metello Salani, nato «al principio di quella scala che parte dal manovale e conduce al mezzomuratore, al muratore, al primomuratore: una lunga ascesa che non ha vette ma ripiani», il poeta musicista delle Cure, pur partito da molto in basso, è riuscito a salire fino in cima: oltre un migliaio di brani; tre Festival di Sanremo vinti; un'opera musicale, Robin Hood, che ha avuto 230 repliche in giro per l'Italia; altre due, Pinocchio e Cirano, già pronte da tempo; una quarta, Il mio Gesù, appena ultimata, che ha del miracoloso, essendo stata composta da un ateo. Chi l'ha ascoltata in anteprima - il regista Leonardo Pieraccioni, il produttore televisivo Luca Bernabei, l'impresario David Zard - vi ha avvertito una forza poetica che va ben oltre il Jesus Christ Superstar di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice. Ma nell'intimo Dati resta quello che era e che sempre sarà: un proletario.
Suo padre Leonello, facchino d'albergo a Camaiore, visse in Versilia fino a quando il datore di lavoro, che lui chiamava «il mio padrone», non lo portò con sé a Firenze, all'hotel Cavour di via del Proconsolo. In precedenza, essendo rimasto solo al mondo dopo la scomparsa di entrambi i genitori, aveva cercato di andare a morire come volontario dell'Armir sul fronte del Don. Non ci riuscì e tornò dalla Russia a piedi. Perse il suo primogenito, Giuseppe, all'età di un anno, nel 1949, per un'infezione intestinale. Fu una corsa disperata a piedi giù per le piane col figlioletto in braccio - da Mommio Castello a Viareggio sono 11 chilometri, serve mezz'ora con l'auto - per sentirsi dire all'ospedale: «Perché ci ha portato questo cadavere?».
La madre Fedora nel 1950 volle battezzare Giuseppe anche il secondogenito, ma non si riebbe mai più dall'immenso dolore. È morta a 82 anni invocando ancora il nome del primo figlio, «che era tanto bello, che era tanto buono», sicché l'altro Beppe ora confessa a se stesso: «Ho vissuto guardando la mia tomba. Non è semplice portare il peso di due vite». Accadde la stessa cosa ai due Vincent van Gogh, e il secondo divenne il pittore conosciuto da tutti.
Ma come può crescere un bambino che si sente la reincarnazione imperfetta del fratello angelicato? Di sicuro timido. «A scuola non riuscivo a inserirmi. Il maestro Ciardini amava solo gli alunni bravi. Finito l'esame di quinta elementare, disse alla mi' mamma: “Lo faccio passare, ma i' su' figliolo non capisce e non capirà mai nulla”. Cosa più vera non poteva affermare». Invece no, non è vera: Beppe capiva soprattutto quello che sfuggiva agli altri compagni. Certo non l'Iliade di Omero nella traduzione di Vincenzo Monti, «“cantami, o Diva, del Pelìde Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei”, ricordo che andai dal figlio del fruttivendolo di via dei Neri, che frequentava l'università, per chiedergli di aiutarmi a tradurla, e lui mi raggelò: “Ma codesto eunn'è mica latino, è italiano!”».
In prima commerciale lo studente Dati gettò la spugna. S'iscrisse alla Scuola del cuoio nel monastero di Santa Croce, «tagliavo e cucivo borse e portafogli, ero diventato un grande venditore soprattutto con americani ed ebrei, è stato il mio lavoro fino al 1979. Intanto suonavo e cantavo, l'ho sempre fatto, fin da piccolo: per me equivale a respirare». Suonava e cantava nelle sagre paesane, per il Pci alle feste dell'Unità e per la Dc alle feste dell'Amicizia. Risale a quegli anni l'incontro con Pieraccioni. «Capitava di trovarci nelle serate, lui con i suoi sketch, io con la mia musica. Oggi non passa giorno senza che ci si senta. Viene qui, mi carica in auto, si va a prendere un caffè. Mi ha appena voluto sul set del suo nuovo film, Un fantastico via vai. Un grande amico. Come Carlo Conti, conosciuto nelle medesime circostanze, un ragazzo d'oro».
Per Beppe Dati, da 20 anni marito della ceca Zdenka Skorunkova, conosciuta a Firenze dov'era venuta a cantare con un coro della Boemia, il passo successivo fu mettersi a comporre da autodidatta. Non solo le parole: anche la musica. «Telefonai allo scrittore Gianni Rodari. Gli chiesi se potevo fargli ascoltare le canzoni che avevo ricavato dalle sue filastrocche per bambini. M'invitò nella propria casa di Roma, a via di Villa Pamphili. Andai con la mia chitarra a 12 corde. Ascoltò e alla fine sentenziò: “Sono contento se trova un discografico che gliele pubblichi. Lei è molto più bravo del Quartetto Cetra, che dalle mie poesie sa trarre solo brani datati”. E così nacque Il treno».
È stato il suo unico Cd?
«Ho inciso anche un 33 giri nel 1981, Beppe Dati, con la Rca di Ennio Melis, l'ultimo vero discografico di questo Paese, l'uomo che lanciò Luigi Tenco, Rita Pavone, Gianni Morandi, Lucio Battisti, Renato Zero, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Claudio Baglioni. Gli piacquero le mie canzoni, Natalina, Lucciola lucciola, Il flauto e la luna. Ma ormai eravamo alla fine dell'epoca d'oro dei cantautori, cominciavano i maledetti anni Ottanta col ritorno della musica straniera. Aveva ragione Rodari nella Lettera ai bambini».
In che senso?
«“È difficile fare / le cose difficili: / parlare al sordo, / mostrare la rosa al cieco. / Bambini, imparate / a fare le cose difficili: / dare la mano al cieco, / cantare per il sordo, / liberare gli schiavi, / che si credono liberi”. Sono i versi di Rodari che amo di più. Insieme a quest'altri: “S'io avessi una botteguccia / fatta di una sola stanza / vorrei mettermi a vendere / sai cosa? La speranza”».
Il successo come arrivò?
«Conobbi Marco Masini. Campava facendo pianobar qui in Toscana. Per lui scrissi Dal buio, Caro babbo, A che cosa pensi. Siccome era un arrivista, portò la cassetta a Giancarlo Bigazzi, l'autore di Rose rosse, Montagne verdi, Lisa dagli occhi blu, Gloria, Lady Barbara, Si può dare di più, Gente di mare. Il quale gli chiese: “Ma chill'è che scrive codeste cose?”. A Bigazzi non fregava niente di Masini, volle conoscere me. C'erano lì anche Umberto Tozzi e Raf. Sei mesi dopo mi diede un nastro in inglese maccheronico di Raf. Brano pop, metrica terribile, parole senza senso, impossibile tradurlo nella lingua di Dante. Invece ne venne fuori Santi nel via vai e un sodalizio durato otto anni, fino alla sua morte. Da Bigazzi ho imparato un mestiere».
Come conobbe Mia Martini?
«Me la presentò Giancarlo perché le scrivessi Fammi sentire bella. È una canzone che è rimasta inedita dal 1992, sta per uscire solo oggi per merito della Sugar di Caterina Caselli. La stessa sorte di Almeno tu nell'universo, che fu tenuta chiusa in un cassetto per vent'anni».
Si comincia a capire perché la cantante nel 1995 si sia suicidata.
«Non so se davvero Mia si sia tolta la vita. Era talmente bella, dolce, fragile, scombinata, talmente sola, talmente persa... Non credo che abbia trovato il coraggio per non essere più. Penso piuttosto a un incidente. Abitava in un appartamento piccolo, tristissimo, eppure era la più grande cantante che avevamo».
Perseguitata da una nomea crudele, quella d'essere una iettatrice.
«Ma lo sa che scrissi un brano per il decennale della sua morte e nessuno lo volle cantare? Un brutto giorno parte la bambola, come diciamo qui a Firenze: “Porta sfiga”. E tu sei finito. Per ignoranza, cattiveria, faciloneria. Guardi quanto può essere terribile la parola! È un'arma, è un'arma».
Un calvario toccato anche a Marco Masini, stretto fra la «vita che non c'è» e la «malinconoia che uccide a questa età», storie di droga, anoressia, aborto.
«Non gli hanno perdonato le tematiche toste delle sue canzoni. E nemmeno il successo. Lì ci fu anche un errore di Bigazzi: decise di assecondare questo pessimismo esistenziale con un brano, Perché lo fai, che anziché procurargli del bene gli arrecò ancora più male. Ci mise una toppa Adriano Celentano, quando invitò polemicamente Masini a cantare Gli uomini non cambiano in ricordo di Mia Martini. E, nel mio piccolo, un'altra ce la misi io, con L'uomo volante, una canzone solare che nel 2004 gli fece vincere il Festival di Sanremo, cancellando la leggenda nera».
Quali valori ha incontrato nel mondo che lei frequenta?
«Valori pochi, quasi niente. Non c'è amicizia. L'unico rapporto sincero l'ho avuto con Bigazzi. Era un uomo, e nel momento del bisogno me l'ha dimostrato: da sfrattato, ho vissuto gratis per due anni in un suo appartamento. Gli altri? Masini, Vallesi, Raf... Quante delusioni!».
Come mai ha composto Il mio Gesù?
«Non è il mio, di Beppe Dati: è Maria a chiamarlo così. Le canzoni cominciavano a starmi strette per le storie che avevo in mente. Ho allungato i tempi. Finché me n'è uscita una di 8 minuti su Ponzio Pilato. Nel Vangelo di Matteo, al governatore che gli chiede: “Sei tu il re dei Giudei?”, Gesù risponde solo: “Tu lo dici”. Otto lettere d'alfabeto. Null'altro. Io ho immaginato invece un dialogo serrato. Un amico avvocato, Giuliano Maffei, l'ha ascoltata e mi ha ammollato un pacco di libri sull'argomento, a cominciare da Storia di Cristo di Giovanni Papini. Così ho finito per comporre altri 45 brani. Un anno di lavoro. Un musical di 2 ore e 20 minuti. Comincia dall'arrivo dei Romani a Gerusalemme nel 63 avanti Cristo e termina sul Golgota».
Complicato, per un non credente.
«Nonostante la mancanza di fede, Gesù è ancora vivo in me. Sarà perché lo vedevo nascere ogni Natale al freddo e al gelo, come cantavano a squarciagola mia mamma e mia zia. O perché da piccolo ho fatto il chierichetto nella chiesa di Santa Croce a Firenze. Che Gesù sia figlio di Dio, m'interessa poco. Ma se devo pensare a qualcosa di buono, ancor oggi penso a Lui».
Arrivato alla fine del musical, può dire di essere ateo com'era all'inizio?
«Sì. La fede è una grazia che non mi è stata concessa. Però sento che un giorno accadrà ciò che Michail Bulgakov scrive nel Maestro e Margherita: “Tutto sarà giusto, su questo è costruito il mondo”».
Carmina non dant panem. Mai fatto la fame a comporre poesie e musica?
«Per ora no. Ma ogni giorno rammento ai miei figli di 19, 14 e 7 anni che stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità. Tutti. Con l'avvento di Internet, il mondo discografico è finito, gli unici guadagni vengono dalle opere teatrali e dai musical. So di un grande artista che ha detto a dei giovani esordienti, i quali gli avevano mandato una canzone: “La facciamo, ma dovete sganciare un tot a me e al produttore”. Ma come, già ci guadagni, perché pretendi una tangente?».
Una vittoria a Sanremo dà il pane?
«Brutta, uscita nel 1992, fece 650 milioni di lire in un triennio. Negli anni Sessanta avrebbe incassato 6 miliardi. Cantata da Mario Tessuto sarebbe diventata la gallina dalle uova d'oro. Oggi non mi danno da vivere neppure i diritti di tutti i brani. Ma la felicità non è nelle cose».
Chi è a suo giudizio il più grande cantante?
«Francesco Guccini, come cantautore. Però Gianni Morandi resta per semplicità e immediatezza il campione nazional-popolare, lo dico col cuore».
C'è un punto di svolta nella storia della nostra musica leggera e chi lo ha segnato?
«Lucio Battisti. In passato la canzone era semplice, disimpegnata, melodica: un inizio, una strofa, un ponte, un giro armonico... Lucio crea qualcosa di inaspettato, rompe lo schema: parte a bischero sciolto, si ferma, cambia tempo. È l'artista che ha dato di più all'Italia».
Che cosa pensa di Matteo Renzi, il suo sindaco?
«Boh». (Espressione perplessa). «Mi piace che scardini la nomenklatura. Però mi sembra un carrierista, un populista».
Qual è il più bel complimento che le hanno fatto in vita sua?
«“Te tu l'hai fatti piangere”».
(661. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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