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Parte già la corsa al Quirinale ma sembrano le primarie Pd

Cominciano le manovre dei soliti noti per conquistare il Colle. Fra gli outsider c'è il "tedesco" Draghi

Parte già la corsa al Quirinale ma sembrano le primarie Pd

Naturalmente mimetizzarsi, schermirsi o fare esercizio di scaramanzia non modifica la realtà. La giostra delle ambizioni per la massima carica dello Stato è una attrazione a cui nessun politico di primo piano può resistere. E se il lavoro sotto traccia e la semina per un raccolto di lungo termine è una costante in condizioni normali, figuriamoci adesso di fronte ai timidi segnali di un imminente passo indietro arrivati con la lettera di Giorgio Napolitano al Corriere della Sera in cui il presidente della Repubblica afferma che si stanno «per realizzare le condizioni per un distacco costruttivo dalla mie responsabilità».

Quella lettura nei palazzi romani è apparsa a molti come il suono di pistola che segna l'inizio di una gara di fondo. I concorrenti prendono posto sullo start e percorrono i primi passi consapevoli che è necessario valutare bene le mosse per non esaurire la benzina e avvicinarsi in salute al fatidico ultimo miglio. Tanto più in una situazione in cui non si conoscono neppure esattamente i tempi e il percorso (si dice che Napolitano stia prendendo in considerazione la data del marzo 2015 per l'addio al Colle). L'unica certezza è che le manovre sono iniziate. E che i nomi in lizza ricordano più quelli delle primarie del Pd che una competizione per la prima carica dello Stato.

La lista è una sorta di monocolore rosso. Si parla di Walter Veltroni da alcuni dato addirittura per favorito per una sorta di naturale affinità renziana; di Romano Prodi nella chiave di un risarcimento post-tradimento; di Massimo D'Alema per un riconoscimento al retaggio storico di Botteghe Oscure; di Stefano Rodotà per riequilibrare a sinistra il baricentro del Partito democratico; di Giuliano Amato perché tanto è inevitabile che lui ci sia; di Luciano Violante come figura in grado di garantire equilibrio e rispetto per gli antichi avversari; qualcuno aggiunge Pietro Grasso per rispettare la gerarchia istituzionale o Paola Severino, forse per uscire dallo stretto recinto del Pd e aprirsi alla società civile.

Unico outsider rispetto a questo «fil rouge» e alla filiera di personaggi con chiara connotazione partitica potrebbe essere Mario Draghi. Una figura che potrebbe fare da garante per la tenuta dei conti pubblici ma che inevitabilmente rischierebbe di oscurare in termini di visibilità lo scalpitante Matteo Renzi.

Altro elemento da considerare, il «gradimento» della Germania che, oltre a sentirsi tutelata sul fronte del rigore economico italiano, potrebbe a quel punto approfittarne per rivendicare la guida della Bce e dopo un presidente olandese, uno francese e uno italiano, provare a piazzare un suo rappresentante a Francoforte. Il problema è che Draghi alla «corsa dove non ci si iscrive», diversamente da tutti gli altri potrebbe davvero non aver voglia di partecipare, avendo davanti a sé altri quattro anni all'Eurotower dove sta dimostrando chiarezza e determinazione sulle strategie e flessibilità sulle mosse tattiche con cui realizzarle.

Le possibilità che si verifichino le condizioni per una nuova conventio ad excludendum ai danni dei moderati italiani e si giochi una partita tutta interna al Pd ci sono tutte. Tanto più che il M5S, pur pescando molti dei suoi voti a destra, ha già dimostrato di essere in grado di proporre soltanto nomi fortemente connotati a sinistra. Una situazione figlia anche del nostro sistema istituzionale che non consente l'elezione diretta del capo dello Stato.

A meno che il centrodestra, in tutte le sue sfaccettature, non metta da parte il timore di disturbare il conducente (alla riforma presidenzialista Matteo Renzi non concede mai neppure un accenno)e riproponga con decisione una sua storica battaglia identitaria.

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