Politica

Un partito, 23 correnti: è già corsa a riciclarsi

I dirigenti manovrano per traghettare uomini e consensi verso una nuova leadership

Roma - Sarà pure colpa di questa legislatura numero 17, come dice Enrico Letta, ma non tutta la sfiga viene per nuocere se dovesse contribuire a portar via con sé, assieme ai neoeletti, anche quell'equivoco chiamato «Pd».
Che la sua travagliata esistenza in vita sia stato un elemento di blocco del sistema emerge in tutta evidenza in questo drammatico momento della vita politica. La cronica incapacità a determinare una linea è figlia del patto diabolico di due classi dirigenti in rotta, quella che veniva dall'abbaglio comunista e quella sopravvissuta al big bang della Dc. La sua identità sbiadita e incerta ne ha fatto un centro di interessi privo di idealità e capace di coesione soltanto di fronte al nemico pubblico numero uno: il Cav. Il suo bacino elettorale, disorientato e deluso, è un'eredità del passato, un lascito andato avanti per forza d'inerzia che ineluttabilmente dovrà trovare altri sbocchi. Presto o tardi l'equivoco verrà sciolto e, di fronte al ciclone Renzi, il problema cardine che si pone ai suoi capi più avveduti (Renzi compreso) è «come portare l'intero gregge su un'altra sponda senza spargimento di sangue». Senza cioè perdere il gruzzolo di voti, giunto peraltro al minimo storico.
I conti per la battaglia finale che si fanno dalle parti del Nazareno non prescindono perciò dall'indiscussa capacità di traghettamento e migrazione di parlamentari, dirigenti locali, militanti ed elettori verso il nuovo che avanza. Il punto di partenza, che spiega più di tante parole, sta nel numero di correnti ufficiali annoverate nel Pd: ben ventitre. Corrispondono più o meno ai dirigenti che si ritengono di «primo piano»; una giungla di sigle che esprime fantasia inversamente proporzionale alla sostanza. Lo «zoccolo duro» dei renziani si trova invece a Palazzo Madama, con i dieci senatori che hanno presentato l'altro giorno il ddl per l'abrogazione del rimborso elettorale. Il loro leader è Andrea Marcucci, fratello di Marialina, imprenditrice già presidente della società editrice dell'Unità. Ma la vera «mente» in Parlamento è l'ex capo della segreteria del sindaco, Luca Lotti, paracadutato a Montecitorio (ha chiesto di essere messo in aspettativa nel posto che gli fruttava circa 7mila euro di retribuzione mensile, caso mai la legislatura lo lasci a spasso). Alla Camera sono una cinquantina gli uomini vicini a Renzi, con Matteo Richetti esponente più in vista. Il presidente dell'Anci, Graziano Delrio, rappresenta invece il punto di raccordo di tutti gli amministratori locali, e sono tanti, che stanno cambiando di casacca. Il problema resta come far convivere sotto lo stesso tetto del rottamatore molti dei noti «rottamati». D'Alema in primis, che si disse pronto a fare «qualcosa di sinistra» con Barca, qualora Renzi si fosse impadronito del partito. Così pure Rosy Bindi, che però a sinistra non andrebbe mai. I giovani turchi, per i quali il futuro rappresenta questione ancora irrisolta, invece sono in braghe di tela. Sperano nel papa rosso: Giuliano Pisapia. Avvocato di buon cuore, si sa. Ma non delle cause perse.


I senatori renziani che hanno presentato il ddl per l'abrogazione dei rimborsi elettorali ai partiti


La «truppa» renziana alla Camera dei deputati. Matteo Richetti è l'esponente più in vista

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