Politica

Perché l'umanitarismo rovina l'immigrazione

Per integrare i lavoratori stranieri occorre premiare i regolari, espellere i clandestini e investire nei Paesi d'origine

Perché l'umanitarismo rovina l'immigrazione

Strano Paese il nostro, tutto intento a ponderare le parole e gli aggettivi utilizzati con riferimento alla realtà degli immigrati, e al contempo totalmente incapace di vedere e capire, prima che sia troppo tardi, fenomeni macroscopici e dalla grande potenzialità eversiva. E quand'anche vede, lo fa con gli occhi del bambino, ripercorrendo fino alla noia luoghi comuni, emozioni, sentimentalismi, sempre comunque guardando indietro e quasi mai progettando seriamente per il futuro. È il caso della percezione socio-istituzionale, estremamente variabile ed erratica, che sul fenomeno dell'immigrazione si è avuta nel tempo in Italia. Ciò che manca, anche a livello di percezione sociale (per non parlare di quella dei policy maker), è che cosa vogliamo fare della nostra immigrazione dopo gli anni dell'accumulo silenzioso e prima che sia troppo tardi. Prima, cioè, che si inneschi, più o meno inconsapevolmente, un'esplosione razziale a catena, sull'onda dell'umanitarismo e dell'egoismo miope, che produce razzismo.

Nel caso di migrazione da domanda prevalgono i lavoratori dipendenti, in settori manifatturieri, a bassa qualifica, in ogni caso pressoché immediatamente inseriti nelle garanzie di welfare proprie dei paesi di destinazione. Essi hanno alta propensione alla stabilità e trovano di fatto nei paesi ospitanti esplicite strategie assimilative: lingua, scuola, casa, modelli culturali, eccetera. Questi flussi di immigrati entrano così nel ciclo sociale delle economie di destinazione attraverso il lavoro. L'assimilazione è, dunque, solo funzione del tempo.

Al contrario, nel caso di migrazioni prevalentemente da offerta la ragione del movimento risiede nelle condizioni socioeconomiche dei Paesi di origine. Non esiste, quindi, nessun attrattore capace di selezionare i flussi, per cui le tipologie dei migranti sanno le più varie: alta scolarità, bassa scolarità, alta formazione, bassa formazione, eccetera. I settori di arrivo non saranno quelli centrali manifatturieri, ma quelli marginali-interstiziali-maturi. Ci sarà alta propensione al lavoro autonomo, alla clandestinità e al lavoro sommerso. Ne deriva una precarietà generalizzata, nessuna propensione alla stabilità e, soprattutto, nessuna strategia assimilativa da parte della società di destinazione. Il bilancio costi-benefici di questi modelli migratori da offerta è tutto spostato sulla visibilità dei costi. Da qui conflitto, razzismo e mancanza di risorse per casa, scuola, lingua, welfare state, eccetera. Non entrando nel ciclo sociale, questi migranti ne rimangono ai margini, portando così alla creazione, nel tempo, di pericolose tensioni etniche e razziali e di discriminazioni ghettizzanti. Se la immigrazione è subìta, infatti, rischia di formarsi un pericoloso mix socioeconomico. Anzi, i flussi migratori che si vanno sommando via via nel tempo finiscono per aumentare le segmentazioni nel mercato del lavoro, vanificando le politiche esplicite di flessibilità salariale.

È quello che è avvenuto in Italia, dove la migrazione è stata quasi tutta da offerta e dove gli immigrati che oggi sono regolari, sia dal punto di vista di permesso di soggiorno sia dal punto di vista lavorativo, sono tali non perché arrivati in periodi in cui il mercato del lavoro domandava quel tipo di immigrazione, ma perché regolarizzati nel tempo attraverso sanatorie e decreti «flusso». Da questa amara constatazione occorre, dunque, partire per sviluppare adeguate e coerenti risposte per il futuro.
La prima strategia deve riportare su un piano di visibilità economica i fenomeni migratori. Le sole risposte umanitarie non solo non bastano, ma rischiano di incancrenire gli squilibri. In altri termini, va perseguita una completa parificazione tra lavoratori immigrati e lavoratori nazionali, così da esplicitare, sia in termini macro che in termini micro settoriali e di area, la reale attrazione da domanda, relativa, cioè, a posti di lavoro non coperti dall'offerta interna.

Questo semplice assunto presuppone la lotta senza quartiere al lavoro nero, al sommerso, all'illegale, in quanto questo tipo di attività semplicemente scarica sulla collettività i costi dell'immigrazione, senza redistribuirne i vantaggi, anzi producendo concorrenza sleale verso quei settori che non utilizzano lavoro irregolare.
La seconda strategia va posta a livello geopolitico in termini di solidarietà Nord-Sud, vale a dire aumentando l'impegno di trasferimenti riequilibratori dalle aree ricche del mondo a quelle in via di sviluppo.

La terza strategia deve riguardare quantità e qualità di investimenti, in capitale umano, diretti ai giovani dei paesi in via di sviluppo: si tratta di avviare uno sforzo straordinario e di lungo periodo nella formazione di base, specialistica e universitaria.
Dal Terzo rapporto annuale Gli immigrati nel mercato del lavoro in Italia a cura della Direzione generale dell'immigrazione e delle politiche di integrazione del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali di luglio 2013 emerge che i dati di fonte Nazioni Unite che riguardano la distribuzione della popolazione mondiale hanno stimato per il 2011 una presenza di quasi 7 miliardi di abitanti.

Secondo le statistiche Istat, nel 2011 gli extracomunitari residenti in Italia erano 3.214.418, contro 1.262.473 del 2003. Mentre sono circa 500.000 gli irregolari (stime Caritas), sia in quanto a soggiorno che a lavoro. La forza lavoro degli immigrati nel 2012 è stata pari a 2,7 milioni, in aumento del +87% rispetto al 2005. Sempre nel 2012, gli immigrati occupati sono risultati pari a 2,3 milioni, e i disoccupati a 382mila. Degli oltre 3 milioni di immigrati regolari, solo una parte è occupata stabilmente e ufficialmente: sono 2,3 milioni i posti di lavoro regolari. Gli altri 382mila o sono disoccupati o sono occupati irregolarmente in attività sommerse, soprattutto nelle aree metropolitane del Centro-Sud, ma con una qualche stabilità. Poco si sa, invece, dei 500 mila irregolari.

È chiaro che per tale complesso universo di presenze extracomunitarie nel nostro paese le politiche del lavoro e dell'immigrazione non potranno che essere estremamente differenziate: per prima cosa l'universo dei regolari va trattato in maniera specifica. Essi, infatti, hanno accettato una visibilità, per così dire, di cittadinanza, ma solo in parte hanno trovato (o potuto trovare) una visibilità economica. Per questi ultimi (i disoccupati) l'unica vera politica è quella di farli emergere, intervenendo sia (soprattutto) sulla domanda (l'economia sommersa) che sulla stessa offerta, favorendo l'impiego di questi extracomunitari in attività di mercato, ancorché non coperte da italiani.

Sugli irregolari-irregolari molto probabilmente non è possibile alcuna risposta socio-economica, avendo essi già manifestato l'assoluta mancanza di volontà di stabilità, sia sociale sia lavorativa. Il loro numero dovrà essere pertanto progressivamente ridotto, soprattutto attraverso filtri all'origine (visti) e fermi controlli di polizia (espulsioni). La domanda aggiuntiva esplicita da lavoratori extracomunitari è molto bassa e a malapena è in grado di mantenere occupato quel nucleo di 2,3 milioni di regolari-regolari. Sulla base delle attuale previsioni di non crescita del reddito in Italia, di aumento della disoccupazione e degli attuali squilibri e segmentazioni del mercato del lavoro tra Nord e Sud, l'unico flusso possibile riguarda quello dell'assorbimento della manodopera regolare disoccupata già presente, attraverso progressive azioni di emersione del sommerso. Ciò che, invece, è possibile fare è migliorare e qualificare la condizione degli extracomunitari già presenti nel nostro paese, differenziando e razionalizzando le risposte a seconda delle tipologie di presenza e di possibile inserimento nella società italiana e sviluppando nel contempo, con il concorso di tutti, gli investimenti e l'assistenza verso i paesi di origine. Non è nell'interesse di nessuno, infatti, accumulare spostati, disoccupati ed emarginati: è un costo per i paesi di destinazione e non produce alcun beneficio ai paesi di origine.

Altra via per coniugare efficienza ed equità sinceramente proprio non c'è.

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