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Pier Luigi al capolinea Anche i suoi tifano Renzi

Pronta l'exit strategy: "Governo breve e voto in autunno con il sindaco leader" E arriva l'ultimo diktat per il Colle: il Pdl scelga tra Amato, Marini o Grasso

Il premier incaricato Pier Luigi Bersani al termine delle consultazioni
Il premier incaricato Pier Luigi Bersani al termine delle consultazioni

Roma - Lo scalpo appoggiato sul tavolo della trattativa - con le sembianze massicce di Romano Prodi, o in alternativa del segaligno Gustavo Zagrebelski - non pare aver funzionato.
Dopo una giornata passata ad attendere invano una telefonata da Arcore, per Pier Luigi Bersani sembra suonato il gong di chiusura. Da Angelino Alfano (fino a ieri considerato nel Pd come l'interlocutore più disponibile all'intesa, insieme a Bobo Maroni) è arrivato a sera l'epitaffio: «La vicenda è chiusa, Bersani è in un vicolo cieco». Con una chiosa sibillina: «Sta a lui ora, se vuole e può, rovesciare la situazione». La risposta di Bersani è a muso duro: «Se fosse un'allusione a un'eventuale trattativa sul Quirinale il Pd non sarebbe disponibile», fa trapelare il Nazareno. Un tentativo di rialzare in extremis il prezzo della trattativa, minacciando di portare al Colle, con i soli voti del centrosinistra, un baubau anti Cavaliere. Funzionerà? «Potrebbe essere un'arma spuntata, la nostra - osserva un esponente veltroniano - perché se dopo il fallimento di Bersani parte l'operazione “governo del presidente”, con i voti del Pd e del Pdl e Giuliano Amato o chi per lui alla guida, Berlusconi ha la garanzia che il nuovo presidente dovrà essere un nome condiviso».
Di certo ieri sera, dopo una giornata passata a spandere ottimismo («L'intesa è quasi fatta, il governo Bersani potrebbe giurare già la prossima settimana», era l'insistente tam tam diffuso dal Pd, anche se i dirigenti più autorevoli sussurravano che le probabilità di successo erano «al massimo il 30 per cento») lo stato maggiore sembrava piuttosto in cerca di una exit strategy. Lo si intuiva dal ragionamento fatto, in un Transatlantico ormai deserto, da Dario Franceschini: «Stiamo ricevendo valanghe di messaggi dai nostri elettori, che ci dicono tutti “mai con Berlusconi”, in nessuna forma. Qualunque cosa facessimo insieme al Cavaliere, anche sotto mentite spoglie di astensioni, non impedimenti o uscite dall'aula, verrebbe visto come un inciucio. E la nostra base non la vuole. E siccome questo vale anche per eventuali governi del Presidente da votare insieme al Pdl, la cosa più probabile a questo punto è che si vada al voto a luglio».
Un modo per spostare sugli elettori che non gradiscono la responsabilità di un accordo che non decolla per ragioni tutte politiche. Come spiega meno diplomaticamente, e anonimamente, un colonnello della sinistra Pd: «Siamo tutti qui, a cominciare da Bersani, appesi alle decisioni di Silvio Berlusconi. Solo lui può far partire il governo. L'unica arma che abbiamo a disposizione per provare a costringere il centrodestra a darci un via libera è quella di dirgli che altrimenti ci eleggiamo noi il presidente della Repubblica, con i nostri voti, e che sarà un nome che a loro non piace». Al Cavaliere, in questi giorni, è stata recapitata una rosa di nomi “potabili”, in cambio del sospirato «sì» al gabinetto Bersani: Franco Marini, Giuliano Amato, Pietro Grasso. Oltre all'assicurazione che anche tra i ministri (in particolare quelli della Giustizia e delle Comunicazioni) non ci sarebbero stati giustizialisti impenitenti o nemici giurati del Cavaliere, e che la guida della famosa neo-Bicamerale per le riforme «condivise» sarebbe andata al centrodestra. Proprio ad Alfano, quello cui ieri sera toccava chiudere la saracinesca. Mentre anche Luca di Montezemolo, uno degli azionisti del centro montiano, tagliava corto: «Basta alchimie e tatticismi, come si fa a non comprendere che non c'è alternativa ad un governo di scopo ampio e forte, sostenuto da tutti?». Un governo di breve durata, si dice già nel Pd, per poi «andare al voto in autunno, con

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