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Ma quali lezioni di gioco Almeno nel divertimento lasciamo liberi i bimbi

Ma quali lezioni di gioco Almeno nel divertimento lasciamo liberi i bimbi

Dice il Piccolo principe che i riti creano i legami, e che sono questi legami a dare senso all'esistenza, perché lo danno alla quotidianità nei suoi dettagli, anche quelli più banali. Quando Antoine de Saint-Exupéry scriveva di quanto, per esempio, sia apparentemente un'inezia che una persona arrivi tutti i giorni alle cinque del pomeriggio, e quanto invece sia determinante nella realtà e nella costruzione del piccolo mondo di ciascuno, non immaginava che dopo qualche decennio ci sarebbero stati dei bambini, come il suo Piccolo principe, così annegati in una rete di abitudini e impegni fissi (la lezione di piano o di violino il lunedì; il nuoto il martedì; il teatro o la danza il mercoledì; l'equitazione il giovedì; cinese il venerdì) che quei riti stessi hanno trasformato il loro potere affettivo e creativo in una forma di controllo: da legami a lacci, da occasione di senso a perdita di sensatezza. Bambini che fra un appuntamento e l'altro si sono dimenticati che cosa sia giocare. E che si ritrovano, paradossalmente, a dover recuperare, con nuove lezioni, proprio su quel terreno su cui dovrebbero essere imbattibili. Che devono frequentare «ore di gioco» con degli esperti, per imparare a divertirsi.
Non sono bambini qualunque, quelli così impegnati: i loro genitori sono pieni di soldi (ma non è sicuro che altre famiglie, meno ricche, non rimpiangano di non poter fare altrettanto) e hanno già in programma di mandarli a studiare in una scuola privata costosa e selettiva. Succede nelle famiglie dell'alta borghesia di Manhattan, gli aristocratici del denaro e dell'Upper East Side, che preparano, o meglio fanno preparare da insegnanti, tate e allenatori i figli per entrare in uno di quegli istituti. Li hanno messi in pista appena hanno iniziato a camminare e lallare, ma poi hanno scoperto che quei bambini così paurosamente preparati nelle arti, nella musica, nello sport, nelle lingue (tutto prima ancora di finire su un banco), ancora hanno una mancanza grave: non socializzano, non sono in grado di giocare con gli altri bambini, non sanno nemmeno bene che cosa fare, con i coetanei. Un giochino sull'iPad? Un cartone alla tv?
Per la scuola d'élite bisogna sfoggiare tutte le abilità: e quindi ecco in soccorso gli educatori che, per quattrocento dollari l'ora, insegnano ai piccoli a giocare, e non c'è da ridere, perché per le famiglie è una questione di vita o di morte (non che il figlio si diverta, ma che entri nella scuola giusta e faccia la carriera prevista). Ci sono società che organizzano «play-date», appuntamenti per far giocare quattro o cinque bambini insieme, osservare come si comportano, spiegare ai genitori su quali aspetti bisogna «lavorare», perché ovviamente non è che sia un gioco libero, naturale, è una lezione in cui «si impara a giocare spontaneamente», a «relazionarsi». Forse quei genitori non hanno pensato di chiamare degli amici con figli e farli giocare insieme o, prima ancora, di entrare nella stanza dei bambini e divertirsi con loro con qualcuno dei mille giochi che gli avranno regalato, ma qualcuno ha pensato una soluzione per loro, per rimediare al tassello mancante. Quattrocento dollari l'ora sembrano proprio una garanzia.

Che poi i bambini giochino davvero, è tutta un'altra storia.

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