Politica

Quegli eroi in divisa picchiati e insultati "È come una guerra"

La testimonianza di un poliziotto del reparto mobile: "Loro cercano il morto, ma non userei mai la pistola"

Quegli eroi in divisa picchiati e insultati "È come una guerra"

Anche lui ha visto quel video. Stefano, il carabiniere del battaglione Liguria, che resiste stoicamente alle provocazioni. «Ho fatto lo stesso in tante situazioni: ti gridano addosso di tutto, chiamano in causa, diciamo così, tua mamma, tua moglie, i tuoi figli. Sono addestrato per non cadere nel tranello. Penso ad altro, o almeno ci provo, pure quando le parole che ti scorticano sono scortate da gesti inequivocabili».

Sorride, Marco (lo chiameremo così). Poliziotto, funzionario, laureato, tecnicamente responsabile di contingente di uno dei reparti mobili della polizia più importanti d’Italia, quarant’anni circa, lo stipendio che galleggia sulla linea dei duemila euro netti al mese. «La nostra è una vita difficile, un po’ zingaresca: andiamo dove c’è l’ordine pubblico da mantenere. Per intenderci, ero a Roma il 15 ottobre, il giorno della follia in cui un carabiniere ha rischiato di morire bruciato nel blindato in fiamme. E ho trascorso gli ultimi tempi in Val di Susa. Sa, fa una certa impressione vedere sempre le stesse facce: sono i professionisti della rivoluzione, si spostano dove soffia il fuoco, fra di loro ci sono anche molti ragazzi stranieri, che non parlano italiano. Un 1.500-2.000 persone che si sono formate - perché pure loro si addestrano - in Grecia. Ad Atene hanno imparato molte tecniche utili per chi vuole praticare la guerriglia. Per esempio, sanno che se butti una molotov sotto i nostri mezzi e trovi il punto in cui c’è la centralina, mandi quella camionetta in tilt. Io e i miei uomini ci spostiamo da una città all’altra, da un’emergenza all’altra, e a volte, confesso, può essere davvero desolante scoprire che gli insulti e tutto il resto ti accompagnano come un corredo anche la sera. Mi è capitato pochi giorni fa, in Piemonte. Ovviamente cambiamo l’albergo in cui riposare notte per notte, in un raggio molto ampio.

Però, quella sera qualcuno deve aver notato un nostro furgone che era parcheggiato davanti all’albergo e il tiro al bersaglio, che era appena finito, è ricominciato».

Marco ha ormai un bagaglio di esperienze lungo più di dieci anni. Ma il tempo non toglie la paura. «Si può avere paura in molti modi. L’importante è gestirla». Ma tenere al guinzaglio le sensazioni e le emozioni che ti scappano da tutte le parti non è così semplice. «L’importante non è cancellarle, ma padroneggiarle. In certe circostanze ce l’ho fatta senza difficoltà, altre volte è stato più difficile».

Primo flash: Roma, 15 ottobre. «Che paura. Avevo davanti una folla sterminata: piazza San Giovanni stracolma. Guardavo e cercavo di capire come comportarmi. Gli antagonisti erano riusciti a coagulare molti altri giovani. Uno scenario già difficile; “per fortuna - mi ripetevo - dietro di noi, alle nostre spalle, va tutto bene”. Sì, in via Emanuele Filiberto, c’erano i fotografi, i giornalisti, fra cui avevo riconosciuto David Parenzo de La7, facce normali». E invece... «All’improvviso, da dove non me l’aspettavo, mi arrivano addosso alcuni sassi. Mi volto, ci assalgono anche da quella direzione. Sono stati momenti difficili. Quando perdi la bussola, quando ti senti accerchiato, quando hai davanti un nemico imprevedibile, agguerrito, anzi incattivito, quando senti la pressione di una folla di cui non vedi la fine, be’, allora, la paura rischia di cambiare nome». Vira verso il panico.

E se il soldato non prevale sull’uomo, l’incidente si avvicina come un incrocio pericoloso. «Sia chiaro: la pistola d’ordinanza, la Beretta 92, per me è un orpello. Un pezzo da museo. Non l’ho mai usata e non la userò mai. La pistola è una tentazione lontana che non mi passa neanche per la mente. Siamo addestrati, noi dei reparti mobili, per non usarla mai. La sequenza in cui Mario Placanica, circondato a bordo della jeep, esplode il colpo di pistola fatale che centra Carlo Giuliani, non deve ripetersi». Però, nella Genova messa a ferro e fuoco dai Black bloc, è successo. E quella croce ha spaccato la storia italiana. «Purtroppo in Val di Susa cercano il morto, fanno di tutto perché si ripeta la tragedia».

Secondo flash: «Anche lì ho avuto paura. Una paura diversa da quella del 15 ottobre, ma sempre paura è. Mi è arrivato addosso di tutto: biglie di acciaio, spranghe, tubi Innocenti fatti a pezzi, sassi di tutte le dimensioni. Perfino l’ammoniaca. In Val di Susa, il 27 giugno e il 3 luglio, ci hanno sparato i razzi usando le pistole di segnalazione. E quando parte un razzo devi avere fortuna. È come stare in guerra, quando cade una bomba. Se ti piglia, prendi fuoco. E poi ho avuto paura quando ho visto una roncola, sì una roncola col prezzo ancora attaccato, che volava verso la mia testa. L’ho parata, d’istinto come un portiere, con lo scudo. Lo scudo ha tenuto, ma per una frazione di secondo, ho temuto che si sbriciolasse. Sa, avremmo bisogno di scudi più resistenti, costruiti con materiali corazzati, non con la plastica. Avremmo bisogno di spray al peperoncino, avremmo bisogno di mezzi adeguati a fronteggiare una sfida che si fa ogni giorno più dura. Avremmo bisogno di essere all’altezza della polizia tedesca o di quella inglese. Invece ci dobbiamo barcamenare. E loro alzano sempre di più la posta, vogliono il sangue. Perché sanno che il sangue porta consenso».

I poliziotti, invece, sono parafulmini ambulanti: «Ci sputano considerandoci le guardie del corpo della casta, quelli che proteggono il Palazzo, i pretoriani del potere. Sento l’odio che sale come la marea. E questo mi avvilisce. Pazienza. Fra noi dei reparti mobili c’è uno spirito di corpo particolare. Guido un contingente che può essere composto da 100-150 uomini, dieci, quindici squadre da dieci. E le squadre restano sempre unite.

Si esce in 10, si torna in 10».

Commenti