Cronache

Quei "mostri" per un giorno rovinati da errori e sospetti

Maurizio Allione è finito nel tritacarne, ma non c'entrava nulla. Proprio come Lumumba o Azouz. Per finire sotto i riflettori da innocenti bastano indagini incerte e un viso da presunto colpevole

Quei "mostri" per un giorno rovinati da errori e sospetti

Adesso può permettersi il lusso di piangere e di dedicare un breve «grazie» ai carabinieri. Maurizio Allione indossa finalmente il lutto dell'uomo cui hanno sterminato padre, madre e nonna. Terrificante. Ma ancora più devastante era il sospetto che l'aveva avvolto come un sacco nero: era lui, per molti, il mostro di Caselle Torinese. E nel girare per il paese offriva gli occhi rossi e la mano tremante. I sospetti, le suggestioni, le voci della strada, tutto cospirava per cucirgli addosso il profilo del possibile killer.

Non è la prima volta. La storia della cronaca nera italiana è anche un elenco di misteri, pasticci, colpi di scena che disorientano. E di disgraziati spinti sotto i riflettori prima di essere issati a forza sul palco dell'indignazione corale. Come è successo a Patrick Lumumba nella vicenda, ancora in svolgimento, del delitto di Perugia. Amanda Knox, la conturbante americana, punta il dito contro Patrick Lumumba, il padrone del pub in cui lei lavora, e gli stringe un cappio intorno al collo. Lo arrestano, poi piano piano la verità viene ristabilita. Lumumba ha due sole cose: un pub e la faccia da presunto colpevole. Può andar bene in quel puzzle, anzi andrebbe benissimo, peccato non c'entri nulla. Quella di Amanda è una calunnia, l'indagine subisce una torsione e punta proprio sulla presunta supertestimone. Il mostro è solo un poveraccio. E semmai si dovrebbe capire il perché di quella falsa delazione. Probabilmente per nascondere altre responsabilità.

Del resto ci si può ritrovare nella scomodissima posizione di Lumumba e Allione per una serie di ragioni. O perché l'inchiesta è mal impostata e al posto di indizi e prove ci sono pregiudizi e tabù. Peggio, la colpevolezza sembra lombrosianamente dipinta sul viso e non ci sono a portata di mano alibi cui attaccarsi. Ancora, al crocevia degli snodi investigativi, certi personaggi, deboli, anzi fragili e indifesi sembrano adatti a ricoprire quel ruolo tremendo. Le loro mosse, chissà perché, combaciano a spanne con quelle dei killer. E così restano sulla giostra per anni, fra servizi televisivi, talk-show col plastico, intercettazioni ambigue.

Roberto Iacono, per esempio, è un nome che ha resistito al tempo ed è diventato l'indagato storico per l'omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, avvenuto il 10 luglio 1991. La sua colpa? Era l'insegnante d'inglese dei figli della nobildonna, era nella villa al momento del delitto, era una persona con le sue fragilità. Iacono è rimasto per vent'anni nel limbo, in quella terra di nessuno in cui gli avevano appiccicato una sinistra etichetta. Provvisoria ed eterna. Non avessero preso come nei romanzi gialli il maggiordomo, il filippino Manuel Winston, oggi Iacono avrebbe ancora sulle spalle il suo fardello. Non mostro dichiarato, ma terminale inevitabile di chiacchiere e veleni.

La galleria degli infelici che hanno portato la croce in Italia è lunghissima: ecco Azouz, il tunisino, braccato subito dopo il massacro di Erba con tanto di proclami della procura: «L'assassino viaggia su un furgone bianco, sappiamo dov'è. È in fuga». In effetti in quelle ore la procura di Como rischia di prendere una cantonata storica. Poi entrano in scena Olindo e Rosa, Azouz passa dalla parte delle vittime. La giustizia aggiusta il tiro.

Un copione che si ripete troppe volte. Mohamed Fikri viene fermato mentre è a bordo di una nave che fa rotta verso l'Africa. Lo acciuffano in mare aperto con un'azione che sembra una cartolina della vecchia pirateria. E invece è un blitz per catturare il mostro, altra parola non si può usare, che ha ucciso l'innocenza di Yara. C'è di mezzo una frase carpita dalle microspie che diventa un rompicapo per gli investigatori: «L'hanno uccisa davanti al cancello». Viene tradotta ora in un modo ora nell'altro, sedici volte. E alla fine alla lotteria del sistema penale, Fikri pesca la casella giusta. Altre volte è la sorte a scagionare il mostro: Filippo Pappalardi esce dalla scena della tragedia di Gravina quando un bambino cade nel buco in cui erano precipitati e spariti Ciccio e Tore.

I figli di Pappalardi.

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