Dimissioni Papa Benedetto XVI

Senza il Pontefice né un governo Ora Roma è caput mundi del vuoto

Con Napolitano in scadenza, la capitale è come ai tempi di Avignone. E manca pure il capo della polizia, malato

Roma e l'Italia sono state per tante volte senza una guida. Conclavi lunghi anni, papi che scomunicavano imperatori e imperatori che deponevano papi. Fino al XIX secolo sono stati decine i casi di sedi vacanti, sia politiche sia religiose, talora in contemporanea. Basti pensare che per un secolo, fra il XIV e il XV, i pontefici se ne stettero in Francia, a Avignone. E che in tempi ben più recenti, in un'Italia governata da Parigi, Napoleone si portò un pontefice a Parigi.
Sembrano tornati quei tempi, e l'accelerazione delle notizie ci fa sentire tutto più drammatico. Solo ieri - vedendo le immagini di Benedetto XVI che saluta - ci siamo resi conto davvero che siamo senza papa. E forse solo ieri, leggendo di un Grillo che dava del morto vivente a Bersani, ci siamo resi davvero conto che non abbiamo un governo: e che non ne avremo uno degno di questo nome per tempo ben più lungo di quello che occorrerà per conoscere il nuovo successore il Pietro. Solo ieri, vedendo il presidente Napolitano - bravo Giorgio - che rispondeva ai tedeschi nell'unico modo possibile, con orgoglio altero, solo ieri ci siamo resi conto che quasi non abbiamo neanche un presidente della repubblica, sospeso nel limbo del suo semestre bianco. Ben più che nel limbo, a un passo dalla tomba politica, è l'intero governo, a partire da colui che fino a due mesi fa era il salvatore della patria, Mario Monti.
Sperduti in questo vuoto, le angosce si moltiplicano. E viene in mente che non abbiamo neppure il capo della polizia, visto che Manganelli non è operativo, dopo una grave operazione. Abbiamo l'allenatore della nazionale di calcio, sì, ma in questo periodo non ci sono partite importanti. E dire, non avevamo ancora finito di rallegrarci per avere aperto dei vuoti consolanti nelle fila dei vecchi politici. Addio miei cari Fini, Di Pietro, Marini, mai più vi rivedrò, si cantava come studenti in gita. Di loro no, non sentiremo davvero la mancanza, ammesso che sia una mancanza lunga: me li vedo, quei tre e tutti gli altri, a gufare che - ora, senza di loro - tutto vada male, che fra poco si torni a votare e possano riproporsi nientemeno che come tanti Maroncelli, sottoposti dall'antipolitica al carcere duro della privazione politica, mutilati di un anno di parlamento, ma pronti a soccorrerci, perché senza di loro…, oh, senza di loro.
Più che la mancanza di poteri, però, è angoscioso l'eccesso di poteri finti o non abbastanza forti. I periodi peggiori per Roma e l'Italia furono quelli che videro un imperatore contro l'altro a contendersela, e un papa contro l'altro - tre, quattro, tra quello effettivo e gli antipapi - e litigarsi la Chiesa.
Oggi, stessa cosa. Un papetto ce l'avremmo, Bersani, che ha quasi vinto le elezioni. Ma che razza di potere ha? A contendergli quel poco, ci sono già due antipapi, che hanno nomi non umani, quasi a rimarcare la loro bellicosità: Giaguaro V e Grillo I. L'uno si propone come sanatore, l'altro come sfracellatore e in mezzo, a prendere bastonate, noi.

Dunque vi voglio raccontare, cari lettori, la storia di Gerberto e Ottone. E' una storia vera, ma sembra una parabola. E come tutte le parabole, ognuno la interpreti a suo modo. Il giovane imperatore tedesco Ottone III voleva ricostituire l'impero romano e - imbevuto dell'educazione umanistica ricevuta da Gerberto, monaco piissimo e colto - smaniava sulla civiltà romana e sognava che papa e imperatore potessero dominare il mondo in perfetta armonia. Era un ragazzo un po' fanatico, ma non ingenuo, e per raggiungere lo scopo nel 996 nominò papa suo cugino Brunone, ventiquattro anni, che prese il nome di Gregorio V. Fu il primo papa tedesco, accolto malvolentieri dai romani e dalla potente famiglia dei Crescenzio, che di fatto aveva esautorato l'autorità papale. Appena Ottone si allontanò con l'esercito, Giovanni Crescenzio costrinse alla fuga Gregorio e nominò un antipapa.
Non fu la prima volta che un capo tedesco si sentì tradito dall'alleato italiano, tanto meno l'ultima. E, come sempre, la vendetta tedesca fu terribile. Ottone tornò a Roma con Gregorio, catturò l'antipapa e gli fece mozzare il naso, la lingua, le orecchie, ovviamente dopo avergli strappato gli occhi. Poi lo processò e lo costrinse, secondo consuetudine, a girare per Roma seduto - dalla parte sbagliata - in groppa a un asino. Quando riuscì a mettere le mani su Giovanni Crescenzio, dopo qualche tortura maggiore del solito, lo fece decapitare sui merli di Castel Sant'Angelo. Il corpo fu gettato dalle mura, portato in giro avvolto, per supremo disprezzo, in una pelle di vacca, e appeso a una forca.

Gregorio riprese il suo posto, ma morì nel febbraio del 999. Al soglio pontificio Ottone fece salire Gerberto, che scelse di chiamarsi Silvestro II. Il nome era un programma: Silvestro I era stato papa sotto Costantino. Ottone e Gerberto volevano portare la fede e l'impero ai barbari popoli dell'Est e, magari, riunificare Roma e Bisanzio: allora sarebbe stato davvero un nuovo Sacro Romano Impero. Erano nella situazione ideale per riuscirci. Discendente di Pietro era l'uomo più colto del tempo, onesto e devoto all'imperatore, che era stato un suo allievo; alla guida dell'impero c'era un giovane e ambizioso amante della romanità e della cristianità, ottimo guerriero.

Una coppia così seppe sfidare anche le paure dell'anno 1000, ma il disastro avvenne subito dopo. Ottone commise l'errore sempre evitato dai suoi avi: volle spostare il centro dell'impero a Roma, in quella che era una periferia povera e riottosa, schiacciata fra la civiltà bizantina e quella islamica. Pensava che Roma sarebbe tornata il centro del mondo appena riunita con Bisanzio, ma era vittima del mito, e guardò più al passato che all'avvenire. Si installò sull'Aventino, benché il clima malarico della Roma di allora gli facesse male, e si attorniò di funzionari locali, colmandoli di titoli e onori. Credeva di attirarsi la loro benevolenza ma i romani, indifferenti ai sogni universalistici dell'imperatore, desideravano semplicemente non averne in casa uno. Ottone cercò anche di occupare il Sud, senza successo: appena l'esercito imperiale si allontanava, i vari signori riprendevano il loro posto e nulla cambiava.
Intanto il clero toglieva il sonno a Silvestro: «I vostri vescovi e i vostri preti» scrisse il papa, «vivono senza nemmeno nascondersi con le proprie mogli e, come cambiavalute o usurai, si attaccano alle ricchezze del mondo». Mentre Ottone conquistava lontane regioni del nord e dell'est, Tivoli si ribellò, Ottone la assediò e la vinse ma stavolta non ebbe cuore di mostrare la determinazione e la crudeltà esibite anni prima: non ci furono bagni di sangue e punizioni. Il suo gesto fu scambiato per debolezza e anche Roma si ribellò, al seguito dei capi tradizionali. Ottone, amareggiato, si rifugiò a Ravenna, insieme a Silvestro, e si lasciò andare a eccessi ascetici che finirono di rovinargli la salute. Non volle tornare al nord, si volse di nuovo verso sud, pur non avendo un esercito in grado di riprendere Roma, e girovagò per settimane intorno alla città amata finché morì, a ventidue anni. Per non provocare altre insurrezioni, il suo corpo fu issato su un cavallo come fosse vivo e riportato in Germania, dove finalmente ebbe sepoltura vicino a Carlo Magno.
Silvestro - benvoluto perché donava tutto ai poveri - poté tornare a Roma, purché lasciasse il governo ai Crescenzio. Così fece, rifugiandosi nei suoi studi (si era fatto costruire anche un osservatorio astronomico) che gli valsero il soprannome di Papa Mago. Morì un anno dopo il suo imperatore, e con lui fu seppellito il sogno di un'Italia unita e parte di un grande impero.
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