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Thyssen, sconfitta la giustizia spettacolo

Thyssen, sconfitta la giustizia spettacolo

La folla. Le lacrime. Le pene esemplari, più severe di un plotone di esecuzione. Non è così che si fa giustizia: oggi, a quasi sette anni di distanza dal terrificante rogo della Thyssen, si scopre che il processo è da rifare. E le pene, già abbassate in secondo grado, dovranno probabilmente scendere ancora. I giornali titolano sulla rabbia dei parenti delle vittime, si registrano frasi disperate, quasi un classico del dolore. Fra tutte quella di Laura Rodinò, sorella di Salvatore, uno dei sette operai morti quella notte: «È uno schifo, è come se avessero ammazzato di nuovo mio fratello». Massimo rispetto, ci mancherebbe, per un dolore che terrà purtroppo compagnia alla donna per tutta la vita, ma occorre riflettere con pacatezza sui guasti di un sistema che non può e non deve funzionare come un talk show. E invece, dopo quella vampata assassina, quell'onda di fuoco che sorprese e straziò i lavoratori, era partita la caccia al capro espiatorio.
Si era detto e scritto, in un frenetico crescendo, che l'azienda dei biechi capitalisti aveva completamente mollato gli ormeggi sul fronte della sicurezza, puntando unicamente al risparmio dentro lo stabilimento ormai a un passo dal disarmo. E alla fine, accusa dopo accusa, passo dopo passo, suggestione dopo suggestione, si era arrivati alla schiacciante vittoria della procura, rappresentata da quella specie di pm nazionale anti infortuni che è Raffaele Guariniello. I dirigenti dell'azienda erano stati condannati a pene pesantissime: l'amministratore delegato Harald Espenhahn si era preso 16 anni e mezzo per omicidio volontario. Sì, equiparandolo al rapinatore che spara alla vittima. Poteva stare in piedi un verdetto così duro, probabilmente accecato dalla voglia di vendetta che covava in un'intera città, Torino, colpita dalla sciagura?
Il dramma era diventato una bandiera da sventolare, l'unico sopravvissuto, Michele Boccuzzi, era arrivato in Parlamento spinto dal Pd, la giustizia si era di fatto trasformata in un regolamento di conti. Con un affollatissimo banco degli imputati in cui avevano trovato, loro malgrado, posto anche il direttore commerciale e quello marketing. In appello, come prevedibile, il furore si è attenuato, l'omicidio volontario è caduto ed è rispuntato quello colposo. Le pene sono state mitigate, anche se fino a un certo punto: la condanna di Espenhahn è stata ridotta da 16 anni e mezzo a 10. Ma non è finita. Ora, a distanza di quasi 7 anni, la Cassazione sembra - il condizionale è d'obbligo in attesa delle motivazioni - aver eliminato alcune circostanze aggravanti. Dunque, si farà un appello bis e con ogni probabilità le pene verranno limate all'ingiù. In ogni caso l'entità complessiva della condanna per ciascun imputato non potrà aumentare rispetto al primo processo d'appello. La città freme e ribolle d'indignazione, i parenti dei morti si sentono mancare e la loro angoscia è pienamente comprensibile, ma era illusorio pensare che una sentenza così controcorrente come quella di primo grado, secondo alcuni una vera e propria follia dal punto di vista giuridico, potesse fare giurisprudenza.
La giustizia non può essere una rincorsa ai sentimenti, anche ai più nobili, e deve mostrare equilibrio. Invece siamo abituati agli equilibrismi, agli ammiccamenti, alle scorciatoie. A distanza di tanto tempo affiorano invece stanchezza e delusione. Per correre, sulle ali del furore popolare, si finisce per retrocedere. Col rischio di arenarsi, in un grande pasticcio, dalle parti della casella di partenza.

Questa sì che sarebbe ingiustizia.

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